L’indirizzo Analitico Transazionale
“L’analisi transazionale si poggia su una visione umanistica senza perdere le origini psicoanalitiche. Ha come nucleo l’analisi strutturale e funzionale degli Stati dell’Io, e la terapia del copione. I principi filosofici dell’Analisi Transazionale riguardano la teoria dell’Okeyness di T. Harris ed il concetto ridecisionalità.”
Introduzione
La mia prima formazione è stata in psicoterapia della gestalt. È durata molti anni. Altrettanto approfondita è stata quella in analisi transazionale e nel corso degli anni altre scuole ed orientamenti mi hanno interessato. Sono pertanto convinto assertore della possibilità, o meglio della necessità di incontro tra le diverse tradizioni terapeutiche, sia perché la reciproca conoscenza stimola sviluppi creativi e sia perché è vero che, come è emerso in meeting e convegni, spesso diciamo cose simili usando linguaggi diversi. È altrettanto vero che taluni approcci hanno seguito a lungo le orme dei fondatori i quali hanno portato, com’è ovvio, nelle loro teorie il proprio modo di essere, a volte più rivolto all’emotivo, altre volte al cognitivo, in altri casi al corporeo. Taluni hanno curato più l’aspetto esperienziale, altri quello analitico.
Quando gli indirizzi terapeutici hanno cominciato a svilupparsi in maniera più autonoma rispetto ai modelli elaborati dai capiscuola, sono stati integrati nuovi modi di pensare e praticare. Oggi il mondo della psicoterapia è pieno di fermenti e ritengo poco utile arroccarsi rigidamente sull’una o sull’altra tradizione. Le scuole di appartenenza sono l’humus dal quale far emergere ulteriori sviluppi e non rigide e autosufficienti verità.
Non sono per gli eclettismi ma auspico integrazioni nelle quali si conservi una visione dell’uomo che si accordi con metodologie e prassi coerenti. In questa occasione mi è stato chiesto di scrivere di analisi transazionale e mi atterrò al tema, sintetizzando alcuni aspetti del suo vasto corpus teorico che mi sembrano particolarmente significativi per il contributo che hanno apportato nel mondo della psicoterapia. L’analisi transazionale costituisce oggi un modo di pensare e praticare la psicoterapia che si poggia su una visione umanistica senza per questo perdere le originarie matrici psicoanalitiche. Accanto alla terapia di controllo sociale, come E. Berne chiamò il tipo di analisi degli stati dell’lo che tendeva a favorire l’energizzazione dell’ “adulto“, si sviluppò nel tempo la terapia del copione, più attenta alla psicodinamica interna e relazionale che dà vita all’organizzazione delle strutture della personalità.
La sua visione terapeutica fu caratterizzata da un’attenzione duplice relativa sia agli aspetti funzionali che a quelli strutturali. Il che significa focalizzare l’intervento terapeutico da un lato sul cambiamento comportamentale, attraverso strategie e tecniche che furono ante litteram di terapia breve, e dall`altro lungo un percorso di tipo ridecisionale o psicoanalitico, quando le condizioni lo consentano.
In quest’ultimo caso la terapia è rivolta ad aggiornare i nuclei arcaici della personalità che ancora sostengono modi di essere e comportamenti basati su concezioni limitanti, rigidità e incongruenze che riducono i potenziali producendo malessere e patologia. Mentre storicamente fu la teoria degli stati dell’Io che Berne mise al centro del suo modello, ritengo che oggi si possa dire, ben a ragione, che è la concezione del copione la cornice nella quale si inserisce l’intero sistema di analisi e terapia che costituisce l’Analisi Transazionale.
Alla teoria del copione è sottesa una filosofia di tipo esistenziale che fa capo ad una visione dell`uomo responsabile, arbitro del suo destino, pur quando fortemente influenzato dalle circostanze ambientali. E. Berne fu un pioniere molto noto presso il grande pubblico attraverso libri che divennero dei best seller, come A che gioco giochiamo? e Fare l ‘amore. Le sue opere più scientifiche furono meno lette e, come spesso accade nel mondo della psicoterapia, pur avendo l’Analisi Transazionale una grande diffusione clinica in tutti i continenti, E. Berne è poco conosciuto nel mondo accademico. Nacque in Canada nel 1910, da un medico e una scrittrice. Aveva dieci anni quando morì il padre. Fu medico come lui e, sull’esempio della madre, scrittore “instancabile”. Il padre come medico “servì i poveri” ed Eric ne seguì gli ideali, quelli della tradizione medica: «come curare, evitare di nuocere e prendersi la piena responsabilità del benessere del paziente» (J. Stewart, 2003). Morì nel 1970 a seguito di un infarto mentre ancora stava lavorando a Fare l’amore e a “Ciao!”… e poi?
Gli stati dell’Io
Si formò alla psicoanalisi e da lì partì per l’elaborazione del suo sistema teorico portando profonde innovazioni sia nella metodologia che nella pratica clinica, entrambe sostenute da un’idea guida: l’Analisi Transazionale è “un sistema di psichiatria sociale e individuale”, messa come sottotitolo ad Analisi transazionale e psicoterapia (1971), una delle sue opere principali. L’intrapsichico e l’aspetto relazionale ebbero pari rilievo. Nelle prime pagine del libro leggiamo che la teoria degli Stati dell’Io fu influenzata dal pensiero del suo analista P. Federn, noto rappresentante della psicologia dell’Io, il quale ebbe concezioni fenomenologiche ed in questi termini elaborò una personale lettura delle istanze freudiane.
Berne portò avanti il discorso del maestro e di E. Weiss, egli stesso allievo di Federn. Weiss definisce uno stato dell’Io come «la realtà effettivamente sperimentata di un particolare lo mentale e fisico, con i contenuti del periodo che è stato vissuto». Sono in nuce le successive formulazioni berniane: uno stato dell’Io contiene esperienze fissate nella loro interezza, esperienze “complete” (Berne 1971). Le elaborazioni teoriche frutto delle analisi di Fedem e Weiss, erano confortate dagli studi di Penfield, il quale nei suoi esperimenti sull’epilessia, attraverso stimolazioni elettriche praticate sui lobi temporali, sollecitava l’investimento di carica di stati dell’Io arcaici, che si riattivavano dando vita ad esperienze nelle quali oltre al ricordo si evidenziava una presenza osservante, non coinvolta nella drammaticità dell’evento rivissuto.
Il ricordo «è la riproduzione di ciò che il paziente ha visto, udito, provato e compreso» (Penfield, 1952). Lavoro simile, ma per altre vie, fecero Chandler e Hartman, lavorando con l’LSD-25 (Berne, 1971). Dagli studi citati, gli autori dedussero che stati dell’Io di età precedenti conservano una loro esistenza potenziale e che possono essere riattivati. Quello che importa ai nostri fini è che tali fenomeni, pur se abitualmente in forme meno eclatanti, si riproducono anche nella vita quotidiana. Berne, impressionato e stimolato dalle ricerche neuro-fisiologiche e dagli studi di Federn e Weiss, prese sempre più distanza dalla psicoanalisi ortodossa dalla quale da tempo andava allontanandosi, e si orientò verso un approccio di tipo “naturalistico”, come lui lo definì, contrapponendolo a quello più concettuale della tradizione analitica. Cercò rispondenze a quanto andava elaborando e attraverso la pratica clinica ebbe conferme scientifiche.
Le origini
La prima definizione berniana di stato dell’Io appare in un articolo del 1957 pubblicato in The American Journal of Psycotheraphy, ora inserito in Intuizioni e stati dell’Io (Novellino, 1992). Berne parte dalla clinica per spiegare i fondamenti teorici di quanto va elaborando e presenta il caso dell’avv. Segundo come esempio di un’analisi innovativa che usciva dai canoni classici proponendo diverse modalità relazionali e una diversa organizzazione del setting. Segundo, stimato professionista, ha una personalità “schizoide instabile” fortemente disturbata, tanto da mettere a serio rischio non solo la propria salute fisica ma anche l’immagine sociale. Fa uso abituale di alcol e morfina e, preso da impulsi incontrollabili, compie atti da codice penale come il rubare chewing-gum e altre piccole cose nei grandi magazzini. Fu proprio l’avvocato che incominciò a definire i suoi comportamenti in termini ai quali Berne attribuì la valenza di stati dell’Io.
A tratti il paziente, raccontando le sue esperienze, diceva di sé: “Non sono un vero avvocato, sono soltanto un bambino”. E in altri momenti chiedeva: «Sta parlando all’avvocato o al bambino?» distinguendo lui stesso due differenti modalità di essere e comportarsi. Così analista e paziente cominciarono ad utilizzare i termini “adulto” e “bambino” per definire e differenziare gli stati psichici che di momento in momento Segundo sperimentava. Accanto alla teoria nascevano anche una metodologia e una tecnica terapeutica. Definendosi “bambino” il paziente non alludeva a un “come” se, ma si riferiva ad esperienze nelle quali stava effettivamente replicando atteggiamenti e comportamenti della sua infanzia. Di un bambino reale quindi.
Anche nella relazione con il suo analista riportava il comportamento e i modi di essere di un`altra epoca della sua vita. Quando interveniva l’ “adulto” si rendeva conto della sua effettiva condizione, comprendendo i pasticci in cui si cacciava e il proprio stato di confusione psicologica quando, nella vita sociale, gli scappavano frasi del tipo: «Noi ragazze dobbiamo stare attente a non bere troppo» che evidenziavano la sua ambivalenza sessuale. Grazie alla capacità che via via acquisiva di differenziare i diversi stati dell’Io, Segundo cominciò a controllare le proprie espressioni e gradualmente a limitare le sue azioni distruttive. ln pratica apprendeva a gestire i comportamenti impulsivi differenziandoli da quanto razionalmente gli permetteva una vita socialmente più adeguata alla propria condizione e psicologicamente più sana. Ad un ricevimento poté controllare la sua confusione e dire tra sé, senza condividerlo con altri: «Se fossi una ragazza, ma non sono una ragazza, non berrei troppo. ln ogni caso non intendo fare osservazioni su questo argomento ad alta voce».
Con questa semplice operazione di separare uno stato dell`Io che proveniva dal passato, chiamato “bambino” perché effettivamente proponeva modalità tipiche del bambino che l’ avvocato era stato, da un altro stato dell’lo capace di contatto con le esperienze attuali, con quanto cioè effettivamente stava vivendo, i sintomi recedevano. Dopo un certo tempo emerse un altro aspetto della personalità dell’avvocato. A tratti veniva preso dall’impulso di disfarsi di tutto il suo danaro per fare del bene. I genitori gli avevano insegnato ad essere generoso. Scoprì che in questi momenti di grande filantropia si comportava proprio come il padre. Lo imitava in maniera incongruente ed esagerata, seguendo le esortazioni del passato, senza alcuna consapevolezza dei danni che poteva procurarsi. In queste occasioni correva forti rischi finanziari, mentre di solito nelle questioni economiche era persona capace e parsimoniosa.
Emergeva così un terzo stato dell’Io al quale Berne dette il nome di “genitore” in quanto replicava il modello paterno. Il paziente, infatti, diceva di usare “il danaro come aveva fatto suo padre, invece che come egli stesso, da avvocato adulto, era abituato a fare”. I tre stati dell’Io vennero scritti con le iniziali maiuscole per distinguerli dalle persone reali e così faremo anche noi d’ora in avanti.
Definizioni degli stati dell’Io: struttura e funzione
Nella stessa opera Berne definisce uno stato dell’Io fenomenologicamente come un sistema coerente di sentimenti a cui corrispondono operativamente una serie di modelli comportamentali anch’essi coerenti. ln seguito la definizione maggiormente condivisa e più sintetica fu quella che descrisse gli stati dell’Io come un insieme coerente di pensieri, sentimenti e comportamenti, definizione che poneva l’enfasi sull`aspetto olistico dell`approccio, che dava globalmente attenzione agli aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali della personalità. Tornando alla definizione originaria, con il termine “fenomenologico” Berne (1971) intende sottolineare che genitore, adulto e bambino, «non sono idee utili […] ma che si riferiscono a fenomeni basati su una realtà effettiva». Nel caso dell’avv. Segundo, chi ruba nei grandi magazzini, non viene chiamato bambino per convenienza ma perché proprio lui, da bambino aveva rubato. Oggi, quando lo fa, rivive la stessa condizione e quindi replica uno stato dell’Io che appartiene al passato. Il termine “stato dell’Io” va inteso esclusivamente come una designazione degli stati della mente e dei relativi modelli di comportamento come esistono nella realtà e rappresentano, insiste Berne, persone reali che sono davvero vissute o stanno ancora vivendo.
Entrando più in dettaglio in Principi di terapia di gruppo (1986) il genitore viene descritto come l’insieme di atteggiamenti e comportamenti incorporati dal mondo esterno, principalmente dai genitori. Ovviamente il bambino apprende dall’ambiente e sugli stimoli ambientali forma le strutture interne che gli permetteranno di gestire la propria esistenza. In generale è cosi che apprendiamo. Genitori, fratelli maggiori, nonni, insegnanti e tutti i grandi significativi che popolano il mondo dell’infanzia, danno stimoli e modelli per esperienze che verranno registrate nel tessuto cerebrale. Quelli che incorporiamo sono “grossi pezzi di tempo psichico”, diceva Weiss. E’ facile intendere l’importanza di questo fenomeno del tutto particolare di memorizzazione ai fini della costruzione della personalità.
Secondo Federn, l’esperienza che viene dal mondo esterno diventa parte di noi ed elemento fondante del “senso dell’Io”, cioè della “sensazione costante che si ha della propria persona” (Berne 1971). La psicologia si intreccia con le necessità biologiche. È proprio l’incorporazione delle figure genitoriali e delle esperienze avute con loro che garantisce la nostra esistenza e in seguito ci offre i primi rudimenti per gestire le relazioni senza le quali non potremmo vivere. Ritengo importante ricordare che nella visione berniana lo stato dell’lo Genitore costituisce una struttura psichica che è dotata di funzioni. Queste ultime non vanno confuse con i contenuti degli stati dell’Io, sono i modi attraverso i quali essi si manifestano, qualificandosi nella quotidianità. Trattando solo con le funzioni, come a volte avviene nell`AT, si rischia di squalificare profondità e portata della terapia. E’ alle strutture che bisogna guardare per riorganizzare la personalità.
La guarigione comportamentale, che pure Berne auspicò, è soltanto una fase del processo, spesso utile per lenire la sofferenza del paziente, ma è il lavoro sulle strutture, quello analitico, intrapsichico e relazionale, che dà spessore e specificità. L’arte del terapeuta, guidata da intuizione e conoscenza, consiste nel saper penetrare nei meandri e nei grovigli cognitivi ed emozionali del paziente, per disarticolare le regole obsolete e permettere lo sblocco di energie recuperabili alla salute mentale.
Una condizione che non è sempre da creare, spesso è soltanto da scoprire, si nasconde dietro le contaminazioni prodotte dalla sovrapposizione di esperienze non assimilate. Attraverso le strutture stabilizziamo l’esperienza ma anche resistiamo e con le resistenze bisogna fare i conti. Abbiamo una necessità biologica di struttura che ci porta naturalmente ad organizzare la nostra esistenza. Non possiamo vivere senza riferimenti ed appoggi e poco importa se a volte non sono effettivi. Formano strutture anche le elaborazioni mentali, le idee, per quanto irrazionali esse possano apparire. Oltre a garantirci sopravvivenza, spesso in maniera illusoria, e possibilità di gestire i nostri bisogni, senza dover reinventare continuamente i modi per farlo, le strutture per loro natura tendono ad irrigidirsi e non lasciano spazio ad altre possibili esperienze. Le vicende della prima infanzia, soprattutto quelle più vecchie, spesso formano introietti non assimilati e come tali condizionano la quotidianità di uomini e donne anche in età avanzata.
Descrizione e diagnosi degli stati dell’Io
Lo stato dell’Io genitore ha una sua organizzazione interna, un contenuto che va esplorato con tecniche analitiche, ed una manifestazione esterna che può essere osservata attraverso i comportamenti. Gesti, posture, atteggiamenti, espressioni del volto, timbro di voce, parole utilizzate, offrono intuitivamente all’esperienza del terapeuta e all’aut-osservazione del paziente la possibilità di definire lo stato dell’lo attivo in un determinato momento. Ma questa è solo la prima tappa per un’indagine più approfondita che nel modello berniano prevede anche un riscontro “sociale”. Per stabilire se il paziente sta vivendo uno stato dell’Io genitore utilizziamo il nostro controtransfert e una sua opportuna analisi.
La reazione transferale viene osservata anche nei componenti del gruppo, quando la terapia si svolge in questo tipo di setting. Seguirà una indagine storica, attraverso la quale verranno esplorate le vicende e quindi i contenuti dai quali lo stato dell’Io trae origine. Infine può essere organizzata un’esperienza fenomenologica che, attraverso tecniche regressive, tenderà a far rivivere la scena protocollare in cui il paziente ha sperimentato i vissuti che oggi manifesta nello stato dell’Io osservato.
Siamo con questo già nell’area dell’analisi fenomenologica del copione. Nella visione berniana l’insieme delle quattro tappe descritte costituisce una diagnosi completa di stato dell’Io. Discorso analogo vale per lo stato dell’Io bambino, che pure viene dal passato e dalla storia della persona. A differenza che per il genitore, lo stato dell’Io bambino si organizza per effetto dell’incontro di istinti, pulsioni e potenziali, con quanto accade nell’ambiente che lo circonda.
Le esperienze che ne conseguono vengono elaborate e poi “registrate”. ln pratica gli stati dell’Io bambino sono l’insieme coerente di pensieri emozioni e comportamenti che furono effettivamente sperimentati in un dato momento della nostra infanzia. Sono, quindi, molteplici. L’adulto definito da Berne è organizzato, adattabile, intelligente, funziona esaminando la realtà. È calato nell’esperienza, quella effettiva che la persona vive nel momento attuale e ad essa risponde. Nel tempo lo stato dell’lo adulto ha avuto definizioni più articolate.
Lo stesso Berne si allontanò da una concezione in cui veniva rappresentato come una sorta di computer elaboratore di dati, freddo valutatore di fatti e opportunità, per giungere a quella di adulto integrato, più congruente con il concetto di autonomia, che fu la naturale conseguenza di una visione dell’uomo e della terapia in cui diventava centrale la teoria del copione. Un adulto integrato porta con sé anche le qualità del genitore e del bambino e i loro stati emozionali. L’integrazione è l’esperienza di un uomo che non solo guarisce dai suoi sintomi ma cresce e si evolve anche in direzione spirituale acquisendo le qualità di compassione, amorevolezza e generosità che appartengono al saggio.
Già nei suoi primi scritti Berne indica come meta terapeutica l’armonizzazione degli stati dell’Io, ciascuno con le sue caratteristiche e potenzialità, per raggiungere un benessere generale. Questo discorso non ebbe seguito, rimase incompiuto e quanti hanno avuto interesse a svilupparlo si sono rivolti all’esperienza transpersonale. Più in linea con la filosofia della psicoterapia della gestalt mi sembra che una visione di adulto integrato possa svilupparsi a partire dalla concezione di autoregolazione organismica, la saggezza naturale che guida spontaneamente verso necessità e bisogni e verso l’autorealizzazione. Ripulendo le incrostazioni che contaminano l’adulto, resta la nuda saggezza naturale.
L’analisi strutturale
Il processo di analisi della personalità viene chiamato da Berne “analisi strutturale” e comporta la chiara differenziazione tra genitore, adulto e bambino, a ciascuno dei quali viene restituito il contenuto che effettivamente gli appartiene. Vanno riallineati e definiti i loro confini. Berne spiega il suo modello attraverso rappresentazioni grafiche, che poi divennero di uso comune, per descrivere uno stato dell’Io “contaminato”, come si presenta dopo il processo di decontaminazione, e come infine appare quando, decontaminato, funziona nella sua pienezza e coerenza. Questo tipo di analisi portò a mio parere a caratterizzare in maniera forse eccessivamente cognitiva il processo terapeutico e favorì il ripiego verso un modello basato sull’ analisi funzionale.
L’Analisi Transazionale di fatto per lungo tempo si è dibattuta nell`ambiguità tra il praticare le vie del cambiamento comportamentale e quelle più complesse della ristrutturazione della personalità. Ritengo che oggi sia convinzione diffusa che la soluzione si trovi nell’ integrazione tra le due. Berne contestava il mondo dell’ortodossia analitica, più centrata sul livello intellettuale che sul cambiamento, ma questo non significò semplificare ma piuttosto orientare la qualità del suo modello in senso fenomenologico. L`intenzione non fu di diminuirne lo spessore. Berne va inteso con questa ottica di fondo quando dice: non basta capire, bisogna “sapere cosa fare”(Stewart, 2003).
Tornando all’analisi strutturale, la patologia emerge quando gli stati dell’Io genitoriali e quelli bambini contaminano l’adulto e questi, impoverito delle sue potenzialità, non è più in grado di gestire i propri bisogni in maniera consapevole e coerente con quanto effettivamente sta vivendo. La persona assume atteggiamenti arcaici, genitoriali o bambini, che vengono falsamente ritenuti adulti ma di fatto non sono coerenti con il qui e ora. Pur se l’analisi strutturale è stata pensata per favorire l’attivazione dell’adulto, perché prenda il controllo della personalità e porti a cambiamenti verificabili, è ovvio che il modello implica un impegno complessivo e che l’analisi strutturale cambia di spessore a seconda se si limiti ad attivare un adulto computer o un adulto che va verso l’integrazione.
D’altro canto è vero, quando l’avvocato Segundo identifica chiaramente i comportamenti che replicano quanto effettivamente viveva da bambino, così come i pensieri e gli atteggiamenti del padre e della madre vissuti come propri, migliora visibilmente. Questo perché i suoi furono reali “insight” dice Berne, cioè effettivi cambiamenti e non una semplice comprensione di concetti.
Poteva percepire realmente, come stati dell’Io in conflitto, quello che accadeva dentro di lui e riconoscerli come residui dell’infanzia. D’altro canto poteva attivare le sue “reali autonomie” che sperimentava attraverso l’adulto. L’insight psicoanalitico non veniva considerato sufficiente, Berne cercava vie per guarigioni effettive.
Un procedere terapeutico che può apparire semplicistico se non si considera il contesto clinico nel quale all’inizio fu applicato, fatto soprattutto di soggetti psichiatrici con i quali, proprio grazie a questa metodologia, si ebbero risultati rilevanti e scientificamente comprovati. Con tali pazienti l’intervento era mirato a conseguire il controllo sociale da parte dell’adulto con una visione particolarmente pragmatica considerato l’estremo bisogno che essi avevano di acquisire senso di realtà.
Un esempio di decontaminazione
Fuori dalle esemplificazioni descrittive, nella pratica clinica e con pazienti di tipologie differenziate, la “decontaminazione”, procedura attraverso la quale viene restituito pieno potere all’adulto, è operazione ben più complessa rispetto ai primi esempi berniani, varia nelle forme e ricca di una metodologia che gli analisti transazionali hanno elaborato nella loro pratica clinica e teorizzato nelle riviste specializzate. La decontaminazione costituisce una prima tappa per poi procedere alla “deconfusione” copionale, ma non per questo gli effetti che si producono sono meno profondi. Basti pensare ad alcuni lavori di rigenitorizzazione o ad altri fatti con la tecnica gestaltica di elaborazione del conflitto, nella quale si scontrano e poi si incontrano il genitore e il bambino per dar vita, infine, ad una terza istanza, l’integrazione delle polarità. In pratica una nuova forma adulta, prodotto creativo delle diverse componenti della personalità.
Voglio portare un breve esempio di applicazione dell’analisi strutturale in un momento critico della terapia di una paziente che sta rivivendo una storia molto confusa con un partner dal quale si era precedentemente separata.
L’ex fidanzato ha insistito a lungo per ritornare con lei e infine, nonostante il ricordo ancora vivo delle sue scenate e degli atti di violenza subita, la paziente ha ceduto mettendo da parte rancore e risentimento. Ora è di nuovo in crisi, non sa cosa fare. Sta bene con lui, dice, ma ha dubbi sul continuare la relazione. Le chiedo di fare l’analisi degli stati dell’Io spiegandole sinteticamente come procedere. In pratica la invito ad esplorare la sua relazione con il fidanzato dal punto di vista di genitore, adulto e bambino.
Emerge che la bambina vuole stare con lui. Con lui gioca, si diverte e poi è premuroso. Inoltre si sente protetta, pur se a volte è violento. Alcuni suoi tratti le ricordano il padre, come il compagno grande lavoratore, e con lei dolce e disponibile. Per altri aspetti è, invece, parecchio diverso. Quando la paziente si identifica nello stato dell’Io genitore questo è tassativo, «non devi, è una persona che non va bene per te». In un dialogo tra bambino e genitore, il primo piange, «non capisci, io gli voglio bene». E l’altro, senza darle spazio, «sarà la tua rovina». Nel dialogo interviene l’adulto da una posizione neutrale: «ma lui è giocoso e poi la protegge… anche se è violento cambierà in futuro».
È evidente la contaminazione dell’adulto da parte del bambino che vuole gioco e protezione. Più avanti diventa ancora più emotiva, disperata. E poi sempre dalla posizione di adulto dice di avere paura: se lo lascia resterà sola e non troverà altri, ormai ha un’età. Ancora siamo di fronte a contaminazioni, in questo caso della bambina che si sente incapace di sopravvivere alla perdita e di pregiudizi genitoriali di tipo culturale che la limitano: per lei non ci sono più possibilità, data l’età nessuno la sceglierà più. Di fatto ha circa 30 anni. Continuiamo ad esplorare i suoi stati dell’Io e le relazioni tra quanto accade oggi e la sua storia di bambina reale. Emerge una forte paura di abbandono e pur di evitare angosce insostenibili accetta adattamenti molto gravosi che paradossalmente le procurano altrettanta sofferenza.
Gradualmente, facendo la spola tra uno stato dell’Io e l’altro, la consapevolezza aumenta. Mi faccio guidare dal controtransfert, il livello sociale della diagnosi, per identificare lo stato dell’Io che vive la paziente la quale, anche nella relazione con me, sento essenzialmente bambina. Con la ferma intenzione di portarla fuori dalla sua confusione la guido verso nuove comprensioni finché, a partire dallo stato dell’Io adulto, scopre che quella relazione non ha senso, è troppo basata sulle sue paure. Si rende conto che se lascia il compagno resta sola per un tempo, ma potrà incontrare qualcuno con il quale avere una relazione più soddisfacente, ne ha la possibilità. Può sopportare una perdita, non è più una bambina. Le è anche chiaro che parte della sua ostinazione a voler stare con lui è per ribellione al “no” dei genitori. Infine si accorge che durante l`esperienza fatta non ha mai parlato di amore, che non ci sono i presupposti per un rapporto profondo e di scambio reciproco per cui la decisione più ovvia è di lasciarlo. Alla fine di questa seduta abbiamo una buona decontaminazione e quindi un buon punto di partenza. Ma non è sufficiente. Per ottenere un produttivo passaggio all’azione occorrerà ristrutturare la mappa copionale.
Struttura e funzione
L’Analisi Transazionale ha vissuto come ho accennato in precedenza, periodi di estrema semplificazione dei contenuti teorici ed operativi, sicché si è spesso diffuso un modello di intervento basato soprattutto su quanto comportamentalmente il paziente manifestava. Da qui invalse uno stile terapeutico che si fermava alla superficie della personalità definendo in termini di genitore normativo o affettivo dei comportamenti che lasciavano presumere la presenza di uno stato dell’Io genitore quando il paziente magari puntava l’indice accusatore o manifestava sentimenti di protezione nei confronti di un compagno di gruppo. Ma la sola manifestazione non è sufficiente per definire uno stato dell’lo. C’è differenza tra struttura e funzione.
La prima riguarda i contenuti e l’organizzazione interna, implica una considerazione sulla psicodinamica e sulle regole organizzative della personalità, aspetti che vanno trattati attraverso l’analisi del copione. Le funzioni genitoriali sopra identificate, così come quelle del bambino nei suoi aspetti adattati, ribelli o liberi, in quanto funzioni possono anche rappresentare un “come se”, un bambino può mascherarsi da genitore protettivo e, viceversa, un genitore può presentarsi sotto forma di bambino libero. Queste valutazioni incidono profondamente nella scelta della direzione terapeutica. L’adulto invece non si differenzia, le sue caratteristiche sono le stesse sia quando viene considerato in termini di struttura che quando si manifesta come funzione. In effetti, lo ritengo più definibile nei termini di un potenziale in evoluzione che non come una struttura che prevede una stabilità nel tempo.
Stati dell’Io e istanze freudiane
L’elaborazione della teoria degli stati dell’Io segna il definitivo distacco di Berne dalla psicoanalisi ortodossa ed è lui stesso che ne stabilisce le differenze, proponendo una sua propria visione dell’uomo e specifiche categorie teoriche. Il genitore, l’adulto e il bambino non sono equivalenti di Super-lo, Es ed lo e neanche delle loro semplificazioni, come i critici vollero intendere. Quelli freudiani sono modelli “concettuali”, precisa Berne. Il Super-lo «è una forza speciale dentro l’Io e ne ha il controllo».
Il genitore è invece uno stato dell’lo “completo”.
Ha istanze critiche ma anche protettive. Non agisce come farebbero un padre o una madre generici, ma proprio come i genitori reali di quella specifica persona.
Ne riproduce il comportamento, i modi di pensare e gli stati emotivi. Discorso analogo vale per lo stato dell’lo bambino. Non è come l’Es, non è un «caos, un crogiuolo di eccitamenti ribollenti» che «non possiede un’organizzazione».
Al contrario, il bambino è altamente organizzato e non è necessariamente in conflitto con il genitore, come avviene tra Es e Super-lo. Inoltre è capace di operare scelte in sintonia con il suo benessere e la sua sopravvivenza, può essere affettuoso e creativo, è ricco di esperienza, è un bambino reale. In Analisi Transazionale e psicoterapia, Berne affronta ulteriormente il tema delle differenze tra la sua concezione di stati dell’Io e le categorie freudiane. Riconoscendo comunque a queste ultime, una forma di influenza sulla personalità.
Più specificamente ritiene che ci sia rapporto tra Super-Io, Es, lo e genitore, adulto e bambino. Berne considera i primi come dei “determinanti” nella formazione degli effettivi stati dell’Io, che a me sembrano possano essere intesi come caratteristiche che appartengono all`uomo in generale, dalle quali discendono le realtà individuali con le loro specifiche connotazioni. Il discorso a questo punto si fa complesso. In ogni caso nella visione berniana, il genitore è lo stato più influenzato dal Super-lo, il bambino dall’Es e l’Adulto dall’Io.
Il discorso si allarga ulteriormente con l’introduzione dell’ipotesi che gli stati dell’Io siano manifestazioni fenomenologiche di “organi psichici”, zone della mente preposte a raccogliere e organizzare le esperienze. Alcune di queste vengono dal di fuori. «Una porzione di mondo esterno diviene parte integrante del mondo interno». È l’organo che incorpora e poi manifesta il genitore. Lo chiama esteropsiche. In essa viene organizzato anche il Super-lo. L’adulto viene invece manifestato dalla neopsiche, l’organo che forma la personalità nuova ed è capace di rinnovare “potenzialità arcaiche” che si trasformano “in nuove facoltà”. Infine il bambino e l’Es, come il genitore, vengono dal passato.
È l’archeopsiche che ne organizza la manifestazione in forma di stato dell’Io. Sia il bambino che il genitore sono il prodotto di effettive esperienze vissute nel passato. Oggi, alla luce delle continue scoperte in campo biologico e delle neuroscienze, il discorso della presenza di organi psichici diventa meno improbabile di quanto apparve negli anni tra il 1950 e il 1960, allo stesso Berne che soltanto li ipotizzò. Manca ancora un approfondimento sulla relazione tra le categorie freudiane e quelle berniane. Berne ne ha stabilito chiaramente le differenze ma non ha spiegato a che tipi di influssi si riferisca quando ipotizza la relazione tra i concetti di Super-Io, Es e Io e le categorie genitore, adulto e bambino.
Ancora sugli stati dell’Io
Nel tempo il discorso sugli stati dell’Io è stato variamente approfondito. All’uso invalso di una Analisi Transazionale troppo divulgativa di parlarne in termini di “il mio bambino, il mio genitore” B.R. Loria (1991) oppose una concezione unitaria della personalità. Gli stati dell’Io non hanno esistenza separata dalla persona, com’è ovvio. Non sono cose e pertanto non vanno reificati. Si tratta comunque di metafore e come tali non sono realtà concrete. In alcune circostanze ci comportiamo in maniera genitoriale e quando questo succede siamo nello stato dell’Io genitore.
Lo consideriamo per comodità analitica un aspetto della nostra personalità che in ogni caso, e non bisogna dimenticarlo, costituisce una complessità integrata. Anche la “realtà fenomenologica” degli stati dell’Io va riconsiderata. Genitore e Bambino cambiano nel tempo, subiscono evoluzioni e modifiche che vanno di pari passo con la crescita e lo sviluppo psichico.
Non restano strutture stabili ma si aggiornano. L’enfasi messa da Berne sull’aspetto fenomenologico e i contenuti di realtà degli stati dell’lo, ebbe anche connotazioni provocatorie contro le esasperate concettualizzazioni della psicoanalisi del tempo e tese a mettere in primo piano le concrete esperienze di vita del paziente. Di fatto gli stati dell’lo in quanto metafore sono approssimazioni alla realtà. Molteplici fattori partecipano alla organizzazione della loro struttura.
Il Genitore è comunque un prodotto finale, il frutto di una trasformazione interna di quanto proviene dalle figure genitoriali. Come verranno elaborati i messaggi ricevuti dipende quindi da meccanismi di adattamento che rispondono ad una regola generale: le nuove esperienze passano attraverso il filtro del sistema di riferimento della persona che riceve gli stimoli.
Una concezione così articolata degli stati dell’Io ha conseguenze importanti, favorisce una maggiore attenzione alle dinamiche intrapsichiche e relazionali comportando allo stesso tempo l’affinamento degli strumenti di esplorazione e delle tecniche di intervento. Berne definiva stato dell’Io genitore non soltanto quello che si manifesta ed è visibile all’osservatore, ma anche e più spesso l’incorporazione che non espressa agisce all’interno e come tale influenza il bambino (Berne, 1971; Edwards, 1968).
La sua presenza non è direttamente osservabile, la si deduce dal comportamento che manifesta il paziente. Uno stato emotivo, un risolino nervoso, un rossore inspiegabile, comportamenti tipici dello stato dell’Io Bambino e incongruenti con quanto sta effettivamente accadendo nell’esperienza qui ed ora, può essere determinato da una voce genitoriale che internamente, in maniera inconsapevole, esprime una critica o un giudizio.
Le elaborazioni interne sono particolarmente significative nel caso delle trasformazioni che possono assumere le incorporazioni genitoriali assumendo forme che ho definito “adattamento complesso” (1989), frutto di un divieto o di un desiderio che vengono esageratamente idealizzati in termini negativi o positivi. Nei bambini possono diventare mostri o fate che governano i sogni e le fantasie, paralizzando il comportamento o trasferendo i legittimi bisogni nella sfera impraticabile delle illusioni.
Principi e filosofia dell’Analisi Transazionale
Berne e i suoi più diretti collaboratori vissero quel periodo di profonda innovazione che caratterizzò il movimento umanistico nel mondo della psicologia, un movimento di vaste dimensioni che coinvolse i modi di pensare delle generazioni a cavallo tra gli anni 1950-1960, influenzando la cultura, le arti e i costumi del continente nordamericano e, in seguito, della vecchia Europa. Su queste esperienze che si respiravano nell’aria, e senza perdere le proprie radici l’analisi transazionale si dette una filosofia che ispirò generazioni di operatori ed il codice etico dell’ITAA, l’Associazione Internazionale voluta dallo stesso Berne.
La stessa ITAA stabilì standard formativi validi in ogni parte del mondo dove nacquero associazioni nazionali. La filosofia dell’Analisi Transazionale mette primo posto il riconoscimento del pieno valore dell’essere umano, indipendentemente dal suo stato di disagio psichico, dalla sua condizione sociale o da qualsiasi altra considerazione che tenderebbe a discriminarlo o ad etichettarlo come diverso. Su questo principio si è diffuso a volte un atteggiamento riduttivo, di fatto svalutante, improntato a forme di buonismo comprensivo e ad un “vogliamoci bene” più figlio di forzature ideologiche che di un effettiva crescita della capacità amorosa di chi lo pratica. ln altri casi sono state alimentate forme di idealizzazione che alimentano la fantasia che ogni cosa sia possibile.
La verità è che in quanto esseri umani siamo soggetti a limiti con i quali bisogna imparare a fare i conti e neanche è vero che siamo sempre ok. Il principio dell’ okeiness va confrontato con la realtà. Le metafore con le quali Berne passava la sua visione del mondo restano metafore. Io sono ok tu sei ok, che fu un simbolo dell’Analisi Transazionale, si trasformò in una banalizzazione propagandistica ben lontana dalle intenzioni berniane, molto più vicine al significato profondo dell'”Io-Tu di M. Buber, fondamento della relazione interpersonale della Gestalt di F. Perls, al quale il filone integrativo dell’Analisi Transazionale si ispirò.
Nel suo significato più autentico riconoscere il pieno valore della persona non è soltanto un ideale filosofico. È un atteggiamento concreto e come tale diventa determinante ai fini della terapia. Comporta relazioni più autentiche e un’attenzione particolare alla responsabilità del paziente nel darsi limiti e nel suo cambiamento. Assumere responsabilità significa, nel suo significato etimologico, capacità di rispondere agli stimoli che vengono dall`ambiente, inteso in senso ampio, e di attivare le connaturate potenzialità individuali per dare risposte creative e congruenti. In AT la responsabilità è implicita nel principio di ridecisionalità.
La matrice esistenziale che divenne centrale nella psicoterapia della gestalt traducendosi in un invito provocatorio a lasciare gli appoggi ambientali per andare sulle proprie gambe, connotò fin dalle origini anche il lavoro degli analisti transazionali, pur se con diversa enfasi ed altre connotazioni. L’uomo costruisce la sua storia sulla base di un’innata capacità decisionale, anche in quei momenti in cui sembra che l’uso della ragione e le potenzialità reattive siano completamente annullate. Dall’uomo “colpevole” della psicoanalisi freudiana, secondo la definizione che ne dà H. Kohut, schiacciato dal destino e vittima di circostanze che non può gestire, l’enfasi viene spostata sull’uomo responsabile, e quindi più drammaticamente attivo nel costruire il suo destino. Il convincimento che ci si possa assumere il carico della propria crescita e delle proprie scelte, nel processo terapeutico si traduce in una richiesta di collaborazione fattiva da parte del paziente. Scoprirà presto che il terapeuta non è un generoso elargitore di guarigione. Non è “Babbo Natale”.
Il recupero delle proprie potenzialità passa per l’impegno, la disponibilità al rischio e spesso attraverso il dolore. Dalla metafora berniana di Babbo Natale discende il modello contrattuale dell’Analisi Transazionale i cui termini verranno definiti chiaramente da C. Steiner (1975). Il paziente non subisce la terapia come avviene nella cura medica, ma ne diventa attore e se ne assume l’onere insieme all’analista, ovviamente con diverse implicazioni.
Relazione terapeutica e transazioni
Il senso più profondo della “pari responsabilità” nel rapporto terapeutico favorisce lo sviluppo di una relazione durante la quale paziente e terapeuta possono contrattare le mete e gli obiettivi e chiarire le proprie esperienze in relazione all’altro, per intendersi ed eventualmente modificare il reciproco atteggiamento, anche attraverso un dialogo vivace, entrambi con l’intenzione di facilitare, proprio a partire dalla relazione, un diverso e più soddisfacente “stare nel mondo”.
Il terapeuta di AT entra direttamente nella relazione e, a seconda del suo stile personale, può giocare i propri interventi con maggiore neutralità o più partecipazione, non solo Adulto ma anche Genitore e Bambino. Tra gli interventi terapeutici è prevista l’interpretazione che diventa preferenziale in alcune fasi del processo, ma anche accoglienza, empatia, confrontazione. Il terapeuta interroga, specifica riformulando, spiega, conferma, usa metafore, cristallizza.
La comunicazione è di tipo colloquiale, ispirata al linguaggio della quotidianità. Aspetto importante dell’attenzione data alla relazione e alla comunicazione in generale, come si evidenzia nel nome stesso che Berne volle dare al suo modello, sono le “transazioni” nelle loro diverse forme, comprese quelle di transfert e controtransfert, specifiche del rapporto tra terapeuta e paziente. Ma non solo. Il mondo transazionale, cioè l’insieme degli stimoli e delle risposte che intercorrono tra i partecipanti, è attivo e analizzabile nei gruppi terapeutici, negli ambienti sociali, nelle scuole o nelle famiglie e può essere oggetto di una forma di analisi organizzata sulle regole della comunicazione teorizzate dallo stesso Berne, regole connesse alla teoria degli stati dell’Io.
La conoscenza degli stimoli e delle risposte transazionali diventò centrale per gestire la relazione terapeutica e favorire l’alleanza con il paziente, requisito importante per il buon esito della terapia. Nella procedura utilizzata per diagnosticare gli stati dell’Io, fu particolarmente rilevante l’attenzione alle risposte controtransferali.
Dopo l’osservazione del comportamento, è la risonanza interna del terapeuta che lo aiuterà a definire, attraverso i suoi vissuti, se il paziente vive uno stato arcaico della personalità, genitoriale o bambino o se invece ciò che egli sperimenta sia congruente con la realtà del momento. Poi verranno anche le successive fasi diagnostiche, storica e fenomenologica, come visto precedentemente. È necessario riportare verità nella relazione.
Finché l’altro viene vissuto come riflesso di un mondo interno, un’immagine che appartiene ad altre storie e ad altre epoche, il rapporto è confuso. Ci si rivolge al paziente o al terapeuta tramite un filtro, l’altro diventa un “come se” ed è impossibile raggiungere la spontaneità e l’intimità relazionale, espressa o non espressa che sia, fattori che in AT vengono considerati, insieme alla consapevolezza, le basi per l’autonomia. L’attenzione di Berne ai fenomeni transferali fu ulteriormente sviluppata e a partire dalla decade del 1980, in Italia, Carlo Moiso e Michele Novellino dettero vita ad uno specifico filone di ricerca, quello psicoanalitico dell’ AT. La loro proposta teorica favorì la possibilità di analisi più articolate e approfondite delle manifestazioni arcaiche della personalità.
Il copione
L’attenzione al sintomo e la sua cura sono valori primari, ma il processo terapeutico significativo passerà per la ristrutturazione della personalità, attraverso un’evoluzione determinata dall’aggiornamento di schemi organizzativi ancora legati a stati arcaici dello sviluppo. In pratica il terapeuta agisce sul copione, la mappa esistenziale sulla quale il paziente ha costruito il proprio piano di vita. Un piano che gli è servito, gli ha dato vantaggi, gli ha permesso di sopravvivere e poi, irrigiditosi, si è trasformato nel tempo in una trappola limitante, non più adeguato alle necessità attuali. Berne dedicò al copione un libro che non terminò e, incompleto, venne pubblicato postumo; “Ciao!”…e poi? (1979).
I principi in esso contenuti costituirono il tessuto portante nel quale è possibile integrare l’intera AT. La teoria del copione conteneva una visione dell’uomo e produsse una conseguente metodologia terapeutica che ebbe ulteriori approfondimenti e sviluppi con autori sia contemporanei, a volte collaboratori diretti di Berne, che a lui succeduti.
Il copione permise di guardare in maniera organizzata alla complessità del comportamento umano e aprì la strada ad integrazioni di movimenti che vissero, contemporaneamente all’Analisi Transazionale, il loro periodo di maggiore sviluppo negli anni tra il 1950 e il 1960. Mi riferisco in particolare alla psicoterapia della gestalt che dette vita ad un filone di scuola all’interno dell’analisi transazionale. Il pensiero e la tecnica gestaltica contribuirono alla formulazione di modelli incentrati sulla ridecisione, grazie all’opera dei fondatori di questo approccio, B. e M. Goolding. Altri analisti transazionali si ispirarono a principi gestaltici arricchendo con i loro contributi non solo la tecnica ma anche la metodologia dell’Analisi Transazionale, favorendo ancor più l’attenzione ai vissuti esperienziali e stimolando forme di trattamento focalizzate sull’espressione diretta di emozioni e stati d’animo, nel qui e ora del setting terapeutico.
Attraverso la drammatizzazione fu possibile rappresentare e ridar vita ad esperienze traumatiche o a vecchie storie che, ancora non elaborate, trattengono energie divenute indisponibili per le necessità del presente e questo modello di tipo “esperienziale” fu, molto più di quanto si creda, congruente con l’interesse che ebbe Berne per gli aspetti strutturali della personalità e offrì significativi vantaggi all’analisi del copione. L’attenzione alle dinamiche interne e alle regole che organizzano il piano di vita, attraverso il modello fenomenologico, aprì la strada ad una terapia più ricca e profonda rispetto all’analisi strutturale classica.
Con il copione si poté guardare al paziente dando spazio sia al trattamento dei processi intrapsichici che alle complessità relazionali. Si ebbe una mappa esplicativa del funzionamento della personalità che permetteva di seguire una logica secondo la quale i fenomeni sono tra loro correlati e coerenti.
L’analizzato apprende ad individuare e a riconoscere i propri modi esistenziali ed avendone consapevolezza potrà cambiarne gli aspetti disfunzionali e praticare nuovi comportamenti. Il piano di vita ha una coerenza interna ed è costruito lungo un filo conduttore che sostiene in maniera unitaria la struttura della personalità, dalle esperienze più arcaiche fino a quelle più attuali, con proiezione verso il futuro. Tutto ciò è particolarmente evidente nel sistema ricatto elaborato da R. Erskine e M. Zalcmann (1979).
Il mondo intrapsichico è frutto, riflette e allo stesso tempo produce la complessità relazionale, in una sorta di circolarità nella quale gli effetti e le cause sono strettamente interconnessi. Il presente conserva il passato. Nel capitolo III di “Ciao!”… e poi?, Berne introduce la teoria del copione in questi termini: «Il destino di ogni essere umano viene deciso da quanto succede dentro la sua testa, dopo che si è confrontato con quanto avviene fuori da essa». Poi commenta: «La libertà gli dà la forza sufficiente a realizzare i propri progetti, e la forza gli dà la libertà di interferire nel progetti altrui».
Questo non significa che tutto sia possibile, atteggiamento che porterebbe a coltivare illusioni. Pur avendo l’uomo un grande potenziale di realizzazione, rientra nella sua capacità di sentirsi libero la verifica di quanto concretamente può fare e ottenere. Ce lo ricordano i principi della teoria degli stati dell’Io. Di fronte al desiderio irrazionale del Bambino e al divieto o al facile permesso del Genitore, è l’Adulto responsabile che opera la scelta adeguata.
Fa parte di una visione realistica dell’esistenza mettere un freno e concepire il limite al quale è naturalmente soggetto l’essere umano. Non c’è spazio per le illusioni. Al paziente che viene in terapia aspettandosi che l’analista abbia la “sfera magica” bisogna offrire verità, senza collusioni e senza cedere a lusinghe adulatorie di chi vuole il terapeuta un “magnifico professore”. Per quanto questi principi siano ovvi e addirittura banali, gli stati dell’Io Bambini continuano a sopravvivere in maniera inconsapevole e a volte portano visioni grandiose che contaminano l’Adulto e inficiano l’esito del processo terapeutico.
Inoltre viviamo in una realtà nella quale molti fattori sono sconosciuti e spesso incontrollabili. Il destino umano ha a che fare con eventi che non sono sempre sotto il nostro controllo e pur quando abbiamo messo le migliori cause possibili per raggiungere il benessere e ci sembra di avere costruito le basi per una soluzione serena del nostro copione, il finale può essere deciso «da uomini che (la persona) non conosce o da germi che non vedrà mai».
ln termini psicologici e quindi per quanto riguarda la possibilità di incidere sugli eventi da noi stessi determinati, il copione viene definito come: «Un piano di vita che si basa su una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata da avvenimenti successivi e che culmina in una scelta decisiva». L’organizzazione di una vita e le sue esperienze significative entrano quindi in un piano organizzato che ha una sua logica interna e produce determinati effetti e non altri.
Questo significa che possiamo intendere le motivazioni profonde del nostro comportamento e disfarne le cause ancora attive, pur essendo venute meno le ragioni che ci spinsero a decidere in una direzione piuttosto che in un’altra. Quindi il bambino, anche se molto piccolo, decide. Non subisce passivamente l’ambiente, per quanto difficile o prevaricante esso sia. Certo le sue scelte sono condizionate da un effettivo stato di fragilità e dipendenza, anche lo sviluppo razionale ed emotivo è limitato, c’è però un margine di scelta ed entro quel margine il bambino prende le proprie decisioni esistenziali. Queste prime decisioni sono somatiche, fisiologiche, reazioni guidate dall’istinto, ma in seguito si evolveranno fino a diventare elaborati processi cognitivi.
Tre bisogni esistenziali
Berne sottende una logica esistenziale al processo di costruzione del copione di vita. Ne sono alla base tre tipi di “fame” che, con sfumature diverse, sono legate alla sopravvivenza e funzionali all’ottenere uno spazio soddisfacente nella vita.
In primo luogo siamo guidati dalla “fame” di struttura. Abbiamo bisogno di riferimenti certi per il nostro comportamento e di modelli che possano offrire una visione del mondo. Non solo i sostegni ambientali, anche la comprensione dei fenomeni ed il loro controllo cognitivo, rassicurano. Per questo costruiamo schemi che poi tendiamo a ripetere e assumiamo un’identità che, confondendoci, facciamo coincidere con il nostro modo di esistere. L’essere diventa equivalente al vivere. Con queste premesse si struttura il copione che, sempre uguale a se stesso, impronta il senso che diamo alle esperienze e i modi dell’azione. La mappa esistenziale, una volta organizzata, permette ristretti margini di flessibilità e così, se da un lato protegge, per altri versi diventa estremamente limitante.
Di pari importanza è la “fame” di stimoli senza i quali l’uomo non sopravvive e il bambino preferisce averne di negativi piuttosto che restarne senza. Sapere come gestirli diventa un fattore fondamentale per l’educazione, guida lo sviluppo umano ed è un potente strumento terapeutico. Gli stimoli, colloquialmente chiamati strokes, carezze, sono alla base dell’esistenza e ne migliorano la qualità (Steiner, 1975).
Infine la “fame” di riconoscimento, più legata al bisogno d`amore, è connessa alla profonda necessità umana di sentirsi voluto, apprezzato, e con il senso di valere. Il riconoscimento, che ci venga da noi stessi o dagli altri, rinforza la spinta e il desiderio di vivere e quando manca si cade nella noia esistenziale e nell’esperienza tragica.
Le decisioni esistenziali
Le tre “fami” sono strettamente connesse alle decisioni esistenziali, ne costituiscono l’humus. Le decisioni, frutto di creatività e di elaborati processi cognitivi, sono forme di mediazione, compromesso tra sé e l’ambiente. Innanzitutto garantiscono la sopravvivenza e in secondo luogo tutelano i bisogni anche se spesso resta davvero poco margine per la loro soddisfazione. E il “piccolo professore”, come lo chiamò E. Berne, lo stato dell’Io Adulto attivo nel bambino, che definisce attraverso l’organizzazione della mappa copionale il proprio stare nel mondo: prende decisioni.
La mediazione è giocata su valutazioni che concernono lo spazio da dare a ciò che il bambino sperimenta come suoi bisogni o suoi impulsi naturali, il proprio mondo interno quindi, e quanto invece obbedire a ciò che gli viene chiesto in termini di divieti e limitazioni. L’ambiente, come già visto, è costituito primariamente dalle figure genitoriali e da quanti assumono funzioni educative o di cura. I loro modelli di comportamento, i messaggi che trasmettono in maniera diretta o indiretta, costituiscono le fonti primarie sulle quali si formerà il copione. Naturalmente anche i fattori culturali hanno peso. Vengono trasmessi di generazione in generazione e incorporato attraverso i costumi familiari e del posto in cui si vive. Infine è la vita stessa che obbliga il bambino a delimitare le sue espressioni e i confini d`azione.
Elementi costitutivi del copione
Nella costruzione del copione incidono le “convinzioni”, i nuclei cognitivi che costituiscono le prime basi per la comprensione della realtà. Sono pensieri irrazionali e generalizzazioni su se stessi, gli altri e la vita che sostengono e alimentano le decisioni esistenziali. Una bambina educata da un padre troppo severo ed esigente può convincersi che tutti gli uomini si comportino allo stesso modo. Di qui può nascere la decisione di star lontana ai compagni maschi, soffrirebbe troppo da una relazione con loro, così come soffrì con il papà.
Infine può organizzare tutta la propria vita a partire da quelle scelte. Magari, assumendo un carattere ritroso e rifiutante, dà loro ulteriore valore e le conferma attraverso le risposte negative che riceve per il comportamento antipatico che mette in atto. La decisione che fu adottata soprattutto con intenzioni difensive, è diventata un modello copionale, quindi uno schema di vita costante del quale si è persa la motivazione originaria. Le mappe esistenziali hanno forme complesse ed è necessario, per comprenderle, scoprire le logiche che le governano. La paziente per la quale abbiamo riportato più sopra un esempio di analisi strutturale aveva preso molto presto una decisione del tipo: «Non mi aprirò, non farò vedere le mie debolezze», basata sulla convinzione: «Se mi mostro disponibile le persone ne approfittano».
Questo accadde veramente con un uomo che tentò di abusare di lei. Oggi nella relazione con il fidanzato la storia si ripete. Quando si apre e si lascia andare lui ne approfitta, diventa prepotente, vuole gestirne il comportamento e, poiché esagera, lei si rifiuta. Il compagno non lo tollera e risponde con rabbia, a volte con violenza. Infine la paziente non sa come agire, è confusa, persa, ed estremamente fragile. Si conferma nelle antiche convinzioni copionali e nelle conseguenti decisioni di chiudersi e ritirarsi, anche per lungo tempo. Salvo ad aprirsi di nuovo per rimettersi “ingenuamente” in situazioni del tutto simili e poi ripetere gli stessi schemi e concludere con le stesse decisioni. Il risultato è sempre uguale: soffre e si sente senza via di uscita.
È la trappola copionale che da un lato la struttura, le dà identità e dall’altro le nega bisogni e aspirazioni. La relazione di coppia viene spesso gestita in modo da poter giustificare e mantenere in vita il copione, anche a costo di sofferenza. I sistemi di riferimento limitano ma sono rassicuranti perché definiscono e strutturano gli spazi della nostra azione. Naturalmente si riducono il potenziale cognitivo e l’esperienza emozionale. La vita perde creatività. Con una concezione un po’ deterministica e volutamente esasperata, quasi a voler scuotere l’inerzia di quanti nel copione si fanno imprigionare, Berne afferma che quando le linee tracciate seguono il loro corso il risultato è conclusione negativa, spesso drammatica, “un tornaconto” che ne è la logica conseguenza.
Come una rappresentazione teatrale la vita ha una sua storia, con un inizio, uno sviluppo e una conclusione. Il testo teatrale viene provato e riprovato e quando va in scena lo spettatore assiste alla versione finale che senza interruzioni o ripensamenti procede fino alle ultime battute. Rispetto alla vita di un uomo, del quale si conosce la trama copionale, e possibile prevedere come questa influenzerà il suo lavoro, il matrimonio e tutti gli avvenimenti importanti della vita, compresa la morte.
Il comportamento umano tende alla ripetizione e non sono gli atti specifici che si ripropongono, o non sempre. Ciò che si ripete è la mancata realizzazione di bisogni e aspirazioni, e quello che non facciamo è di imboccare la via alternativa che porterebbe al risultato desiderato. Le gestalt restano aperte per paura di incorrere nei rischi che verrebbero dalla sfida ai “no” ambientali.
Oppure è l’ignoranza delle nostre possibilità che interrompe la spinta creativa nella ricerca delle soluzioni. Nessuno rinuncia facilmente ai propri bisogni. In certi casi manca l’apprendimento, altre volte sono le credenze di base che si sostituiscono ad essi con un artificio. Sono chiusure cognitive e non danno nulla di effettivo, solo delle spiegazioni che non soddisfano e però rassicurano. Per alcuni è la generalizzazione, frutto del pensiero di un bambino ancora incapace di discernere e differenziare gli aspetti della realtà, che impedisce la scoperta di alternative. Un’esperienza negativa può essere estesa ad altre circostanze che nulla hanno a che fare con le situazioni effettivamente vissute. In maniera polare agisce il meccanismo della grandiosità. Il pensiero governato da visioni al “superlativo” accresce il senso di svalutazione e l’avvilimento.
Generalizzazione e grandiosità mantengono attivi gli stati dell’Io Bambino e finiscono con il condizionare l’esistenza. I loro contenuti vanno ridimensionati e poi integrati nella realtà attuale, fortunatamente il copione non è solo limitante. Molte azioni sono determinate da potenziale creativo, capacità di scelta, coraggio e libertà. Entriamo negli aspetti limitanti del copione quando viviamo esperienze dietro le quali sono attivi meccanismi arcarci che non si sono evoluti.
Un ponte tra passato e presente
Allora scatta il modello riparativo cristallizzato nella memoria. Reagiamo a situazioni nel qui e ora sostanzialmente con le stesse modalità, per quanto aggiornate, che utilizzammo da bambini. D. Kupfer e R. Haimowitz (1971) hanno teorizzato un legame, la presenza di un “elastico” che lega situazioni presenti a quelle del passato. Una linea ideale lungo la quale si sviluppa un continuo di esperienze che hanno contenuti similari. Il paziente ci dice che urla quando ritiene di non essere ascoltato, così come faceva da bambino quando non riceveva ciò che avrebbe voluto. Gli stati dell’lo arcaici si riattivano e con essi la logica e le regole interne che hanno dato vita al copione, la mappa complessa di cui la specifica esperienza costituisce una parte coerente. Si producono così fenomeni di contaminazione incongruenti con le esperienze vissute nel presente. Berne definisce il copione un grande dramma transferale. Intendo la metafora come un guardare ad una realtà popolata di uomini coinvolti in vicende che di fatto non sono le loro, ma che ne riflettono le storie.
A partire da queste basi la pratica clinica del copione ha prodotto forme efficaci intervento. R. Erskine (1974) propone di disinnescare “l’elastico” stabilendo un ponte tra quanto si verificò nel passato e si ripresenta oggi, per poi disarticolare la maglia copionale e permettere che si riattivino gli aspetti repressi che rappresentano bisogni vitali. A volte è la fantasia di soluzioni magiche a sostenere il copione: «Verrà il tempo in cui le cose cambieranno» contiene un desiderio, ma può restare un’illusione quando la bambina si aspetta che arrivi il principe azzurro e il bambino l’eroe che verrà a liberarlo. Entrambi sognano il riscatto, che sia il ricevere giustizia o l`amore non avuto.
Le fantasie aiutano a vivere, ma quando sono troppo lontane dalla realtà bloccano la crescita. La sana aspirazione attiva il potenziale, l’illusione frena e produce sofferenza. Per uscire dal copione è anche necessario abbandonare l’idea di un mondo perfetto e incominciare ad usare gli aspetti adulti della personalità per risolvere concretamente i problemi e soddisfare le proprie esigenze. È implicito nel comportamento responsabile l’impegno al di là della fantasia per modificare la propria vita e il terapeuta lo sollecita stimolando a vivere realisticamente, calati nel presente. Molti problemi nascono da un atteggiamento passivo verso la vita. Gli Schiff (1980) che hanno lavorato per un certo tempo con pazienti psicotici, hanno messo a base del loro modello AT una terapia di rigenitorizzazione centrata sul trattamento della sindrome di passività. Finché aspettiamo che altri facciano per noi subiamo la vita e il discorso vale anche per la cura di patologie gravi. La troppa cautela rende poco stimolante il trattamento e i pazienti sempre più passivi. L’estrema protezione non aiuta. Proprio Berne ha dimostrato che anche nelle persone molto destrutturate è attiva una presenza osservante ragionevole e capace di intendere. Non siamo più bambini e ancora, nei momenti difficili, cerchiamo l’appoggio di figure materne o paterne che spesso facciamo rivivere in mogli o mariti ai quali inconsapevolmente ne attribuiamo il ruolo. Anche in questi casi replichiamo il copione.
I messaggi di copione
Nell’analisi del piano di vita vengono individuati i messaggi ricevuti dal bambino che produssero i processi decisionali arcaici. A questo scopo C. Steiner elaborò la “matrice di copione” – Lo schema, senza entrare in dettagli, riproduce graficamente, attraverso vettori che congiungono i diversi stati dell’lo della triade padre, madre e figlio, i principali messaggi che il bambino ricevette. Sono di tre tipi: ingiunzioni, controingiunzioni e programmi. Le prime sono espresse soprattutto in maniera non verbale e raggiungono il bambino in età precoce. Tendono a limitarne fortemente la crescita e lo sviluppo fino a negare aspetti fondamentali per l’integrità della persona. Provengono da uno stato dell’lo definito “Bambino nel genitore”, in pratica una struttura irrazionale e arcaica del genitore reale incorporata dal bambino.
Gli autori di AT hanno variamente descritto questo aspetto della personalità che si caratterizza per la sua particolare carica distruttiva, attribuendogli a volte nomi evocativi come “genitore strega” e “genitore orco”. Si manifestano, oltre che nel comportamento, in forme differenti negli incubi, nei sogni o nelle fantasie del paziente. Sono “elaborazioni complesse” e creative di stimoli genitoriali che all’origine produssero divieti e paura. In questo caso l’ingiunzione, a seguito di processi interni che tendono ad aumentarne e a generalizzarne la portata, può assumere un compito paradossale: costituisce una forma di protezione. Il bambino stesso evita le conseguenze di alcuni suoi comportamenti, che immagina disastrose, creandosi in forma simbolica dei “no” che non danno scampo. Così evita di compiere atti per i quali prevede forti ritorsioni. Produce quindi dall’interno forme terrifiche che, impedendogli l’azione, lo “salvano”.
Le ingiunzioni più distruttive incidono sul diritto di esistere e minacciano la sopravvivenza come nell’esempio di una madre che con il volto contratto dalla rabbia urla al figlio: “Perché non muori?”. In altri casi negano l’identità, come quando, con profondo disprezzo un genitore dichiara: «La peggior cosa che mi poteva capitare è stata che tu fossi maschio», oppure: «Sei nato per caso, non ti volevamo». Naturalmente questi messaggi incidono fortemente sulla costruzione del copione. Hanno valore di ingiunzione anche atteggiamenti o espressioni reiterate nel tempo che fanno intendere al bambino che è meglio restare piccolo e stimolano decisioni del tipo “Non crescere”, o al contrario “Non essere bambino”.
Nel primo caso sarà un eterno Peter Pan e nella seconda ipotesi diventerà presto un piccolo uomo o una piccola donna, con responsabilità troppo grandi per la sua età. Le ingiunzioni agiscono sul far parte della o sulle funzioni dell’intera personalità e possono influire anche sul diritto ad essere del proprio sesso, ad avere le proprie caratteristiche fisiche, i propri modi di pensare e sul far parte della propria famiglia. Le controingiunzioni, invece sono i messaggi che contengono un “devi” ed hanno come obiettivo l’educazione e l’inserimento sociale. Sono espresse con buone intenzioni, trasmettono le aspettative e i desideri dei genitori rispetto al figlio o cosa pensano sia meglio per lui. Sono il riflesso della cultura, della morale e delle abitudini sociali di una specifica famiglia o di un gruppo. Propongono modelli che, in fondo rassicurano i padri e le madri i quali tendono a conservare i loro sistemi di riferimento e quindi a tramandarli. Se da un lato hanno una funzione sociale importante dall’altro frenano il potenziale e la creatività personale.
Ciò che più conta ai fini terapeutici è che le controingiunzioni appartengono allo stesso insieme di concezioni di vita che hanno prodotto le ingiunzioni e quindi tendono a confermarle, secondo una logica e una coerenza che sono alla base della costruzione del programma di vita. Sono espressioni del tipo: “Devi essere bravo, devi studiare molto, sono contenta quando mi aiuti, comportati da ometto, per affermarti nella vita devi...” e così via. Le risposte possono essere di obbedienza o di ribellione. Infine i programmi. Sono modelli che il genitore offre implicitamente attraverso il suo particolare modo di vivere che si manifesta con azioni specifiche.
Non c’è bisogno di messaggi espressi. Il figlio osserva, respira l’aria dell’ambiente in cui si trova e apprende imitativamente dalle figure genitoriali comportamenti, stati emotivi e modi di pensare utili e socialmente accettabili oppure distruttivi e inappropriati. Se papà reagisce di fronte a situazioni problematiche con rabbia e violenza il figlio potrà ripeterne i modi e, in maniera analoga, quando l’esempio familiare è stato di deprimersi di fronte alle frustrazioni, è facile che il bambino apprenda ad attivare anche lui forme depressive quando si trova in difficoltà. L`imitazione spesso si manifesta in espressioni del viso, atteggiamenti fisici, modi di sorridere e in generale gesti caratterizzanti che a volte passano di generazione in generazione.
Il programma può venire da lontano. A volte la semplice attribuzione di un nome reca con sé elementi del carattere della persona dalla quale lo ereditiamo e il suo significato può connotare chi lo porta. Anche un segreto di famiglia influisce sul comportamento di figli e nipoti, fino alla trasmissione inconscia di aspetti distruttivi non vissuti, passati come “patata bollente” ad un figlio che li realizzerà (English, 1969). A volte assumiamo i messaggi così come vengono trasmessi, altre volte li filtriamo. In pratica attribuiamo loro un significato che parte da una valutazione del tutto personale di quanto sta avvenendo, valutazione determinata sia dal nostro particolare modo di intendere le cose della vita sia dalle vicende pregresse che già costituiscono in nuce il nostro sistema di riferimento.
Su queste comprensioni siamo poi chiamati ad operare scelte che saranno determinanti per le decisioni esistenziali che adotteremo. Quindi, a partire dall’analisi degli stimoli ambientali, ingiunzioni, controingiunzioni e programmi, il terapeuta di AT faciliterà la comprensione delle dinamiche che hanno portato a formare convinzioni e decisioni di copione per poi attivare il processo ridecisionale che porterà dapprima alla consapevolezza del proprio funzionamento, poi alla individuazione di alternative e in seguito alla realizzazione concreta di nuove possibilità. A fronte dei messaggi limitanti di copione ricevemmo permessi attraverso i quali abbiamo appreso abilità comportamentali, cognitive ed emozionali che ci hanno consentito di sopravvivere e di avere uno spazio nel mondo. Il permesso è un importante strumento terapeutico.
Un programma negativo può essere cambiato a favore di scelte più libere e il terapeuta attiva il processo ponendosi in contrapposizione al genitore incorporato, per contrastarne la forza, rassicurando e guidando il paziente lungo un nuovo percorso. Il permesso terapeutico va in due direzioni: “Fallo”, nel caso di esperienze mai vissute prima, oppure: “Non hai l’obbligo di farlo” quando il comportamento produce malessere. In pratica: “Puoi fare una cosa diversa, sei libero di scegliere”. Il terapeuta con le sue funzioni adulte e genitoriali insieme, si mette a lato del paziente e con permesso e protezione, ma anche con la forza della sua coerenza e della sua visione del mondo, favorisce la sperimentazione di nuove possibilità. Berne diceva che un terapeuta timido non può contrapporsi ad un genitore infuriato. Più in generale, al di là della tecnica e della metodologia, le qualità del terapeuta e il modello che lui offre diventano fattori fondamentali nel processo di cambiamento.
La phisis
ln analisi transazionale assume grande rilievo la spinta propulsiva che guida verso il cambiamento secondo leggi naturali. Fin dal 1947, in Guida per il profano alla psichiatria e alla psicoanalisi, Berne parla di una forza che spinge l’uomo a crescere e a migliorare. È la phisis, che in Ciao!…e poi? identifica con la programmazione parentale costruttiva. La mette in relazione con la “vis sanatrix naturae”, il potenziale di guarigione al quale può attingere il terapeuta per stimolare il processo verso la salute mentale. Possiamo allora concepire che la guarigione passi attraverso il ripristino delle potenzialità offerte dalla natura per il raggiungimento di mete e bisogni che, per effetto di interruzioni difensive o divieti ambientali hanno perso l’appoggio delle energie necessarie alla loro realizzazione. F. Perls fa riferimento all’autoregolazione organismica, un’intrinseca saggezza naturale che, se consapevolmente ascoltata, da sola guida.
Le aspirazioni del bambino, contrapposte alle illusioni idealizzanti, vanno ascoltate, costituiscono la guida per un’esistenza che soddisfa. Gli scopi per i quali ci si impegna danno vita alla personalità “vincente” come Berne definiva colui che realizza gli obiettivi che si è proposto o chi di fronte al fallimento è capace di riesaminare il proprio operato e correggerlo, senza arrendersi o sminuirsi. È naturale commettere errori, non c’è garanzia di successo e soltanto correndo il rischio conosceremo l’effetto della nostra azione. L’alternativa è quella di subire passivamente l’esistenza e di qui il degrado paralizzante del “perdente”, avvolto nel suo copione organizzato su convinzioni che lo tengono legato a visioni limitanti e ripetitive. Finché non corre il rischio di cambiare direzione, le sue transazioni con il mondo con la vita e con le persone che gli stanno intorno seguiranno schemi fissi ed abituali che come già evidenziato, si autoalimentano.
I giochi
Altra area dell’Analisi Transazionale è quella dei giochi psicologici, tema al quale Berne ha dedicato un libro, A che gioco giochiamo, che divenne un best seller nella decade del 1960 e fu conosciuto più per l’acuta e realistica presentazione di caratteri umani che per le geniali analisi psicologiche che conteneva. Gli slogans di giochi come “Stupido”, “È tutta colpa tua”, “Goffo pasticcione”, “Povero me”, “Gamba di legno”, “L’alcolista”, “Violenza carnale” e tanti altri, vennero utilizzati riduttivamente, come etichette, tesi a sottolineare comportamenti.
I giochi sono invece forme articolate di comunicazione con una struttura strettamente connessa al copione. In pratica, attraverso transazioni che si manifestano su due livelli differenziati, quello sociale e quello psicologico, chi “gioca” tende ad entrare in relazione secondo schemi che portano a confermare la propria posizione esistenziale, le proprie convinzioni e a riproporre stati emozionali negativi abituali.
In questo modo il bisogno effettivo, che a mio parere è alla base di ogni gioco, si perde nelle pastoie di interazioni che seguono canali copionali e pertanto non viene mai soddisfatto. I giocatori, spinti da una apparente impossibilità ad agire diversamente, si sentono trascinati verso esiti che portano a risultati, a volte drammatici, di fronte ai quali appaiono incapaci di frenare il meccanismo nel quale in maniera inconsapevole, si sono coinvolti.
I partecipanti a relazioni di gioco hanno intenzioni che appaiono coerenti con quanto verbalmente viene comunicato, quindi socialmente accettabili: «Sono in ritardo, scusami”, e l’altro può rispondere: “Non preoccuparti, non importa”. L’osservatore esterno, attento, può però notare che le parole sono accompagnate da gesti, toni di voce, atteggiamenti, non congruenti con le parole utilizzate. Segni impercettibili che rivelano propositi diversi dai contenuti del linguaggio verbale, messaggi non espressi che nascondono vissuti dai quali di fatto verrà determinato il risultato di quella comunicazione. Il giocatore, si dice, ha un’intenzione ulteriore, inconsapevole, il cui contenuto inizialmente non viene espresso ma si rivelerà in un momento successivo, quando all’improvviso, sperimentando un differente stato emozionale imprevisto da lui stesso e dall`altro giocatore, un vero “colpo di scena”, cambierà ruolo e stato dell’Io, erompendo in reazioni inaspettate.
Il meccanismo si instaura in maniera impercettibile, sviluppandosi in un crescendo che porterà uno dei soggetti coinvolti a sbottare, magari con rabbia: “Sei il solito inaffidabile...”. Al che l’altro, dopo un attimo di smarrimento per la reazione imprevista, reagirà di conseguenza e quella che sembrava una comunicazione routinaria assumerà toni di tutt’altra natura, con evidente aumento delle energie emozionali coinvolte. Andando avanti, il gioco termina con un finale drammatico, detto tornaconto o pagamento, che consiste in un’emozione negativa accompagnata dalla sensazione spiacevole di sentirsi intrappolato in qualcosa di abituale, di conosciuto, a cui però non si sa come opporsi.
È il copione che dallo sfondo si rivela e l’insieme di sentimenti e convinzioni che si manifestano chiariscono il vero significato di quello che sembrava un banale scambio di transazioni. Il gioco della paziente già citata è guidato dalla sua ingenuità: è disponibile, aperta ma c’è ambiguità nelle sue relazioni, come ella stessa riconosce. Fa intendere cose che non esprime con chiarezza.
L’altro, il fidanzato, si aggancia e poi l’apertura e la disponibilità vengono meno e il partner reagisce con violenza. Il processo è inconsapevole e la paziente, quando entra nel meccanismo, alla fine ne soffre e si conferma in convinzioni negative che, come abbiamo visto, la portano a chiusura e ritiro. Le emozioni che emergono alla fine di un Gioco non sono “naturali”, non sono congruenti con i bisogni effettivi. Berne le definisce di ricatto.
Hanno una loro origine manipolativa e soprattutto non rispondono alla funzione originaria che un’emozione dovrebbe avere, quella di guidare verso la soddisfazione di bisogni o di esaurire situazioni che si protraggono nel tempo, come ad esempio il dolore per un lutto che, se vissuto, permetterebbe a chi ha subito la perdita di uscire dallo stato di sofferenza e di passare ad altre esperienze. L’emozione di ricatto, di “racket”, è “parassitaria”, tende a ripetersi e non è funzionale. Il lamento o il pianto costante del giocatore di “Povero me” non suscita comprensione ma al contrario irrita. Strettamente connesse alle emozioni di ricatto sono le già descritte convinzioni di copione.
Sono nuclei cognitivi, idee irrazionali su se stessi, gli altri e la vita che contengono visioni arcaiche e generalizzanti, idee pazze che strutturano e caratterizzano la personalità. «Allora è vero che per essere amato devo annullare i miei bisogni!», «…che gli altri sono egoisti», «…che la vita è impossibile». Le convinzioni che si manifestano nel gioco sono le stesse sulle quali si organizzano il copione e il carattere della persona. C’è una stretta connessione tra carattere e copione, la sottolinea lo stesso Berne in Principi di terapia di gruppo (1986) e fa risalire entrambi i fenomeni a decisioni esistenziali prese in eta precoce. Nella mia pratica professionale ho trovato particolarmente arricchente il connubio di copione e analisi del carattere fatta nei termini della psicologia degli enneatipi, un modello ampio e articolato di studio della personalità che viene dalla antica tradizione dell’Enneagramma.
Nelle relazioni di gioco emergono stati dell’Io che funzionano secondo polarità. Se in uno dei giocatori è attivo lo stato dell’Io Bambino nell’altro sarà energizzato quello Genitore.
La parte non vissuta resta sullo sfondo e viene proiettata sull’altro.
Viceversa succederà quando gli stati dell’lo verranno scambiati tra i giocatori, nel momento in cui si verifica il colpo di scena. Nel gioco, com’è ovvio, manca la presenza dell’Adulto, fortemente contaminato dal Genitore e dal Bambino che producono un fenomeno definito di “doppia contaminazione”.
A livello funzionale gli stati dell’Io si rivelano attraverso i “ruoli drammatici” di persecutore, vittima e salvatore, ruoli che sono analizzabili con il modello del triangolo drammatico elaborato da Karpman (1968), il quale fu anche l’autore che evidenziò il fenomeno del colpo di scena o “scambio”.
Conclusione
ln conclusione, questa introduzione pur se in sintesi, mi ha permesso di dare un saggio di quanto articolati e ampi siano il corpus teorico, le metodologie e le prassi terapeutiche dell’Analisi Transazionale. Questo approccio permette di affrontare ampie aree della psicopatologia, senza dimenticare l’ambito dello sviluppo e della crescita personale, area alla quale, per ovvie ragioni di economia, è stato dato poco spazio. L’analisi transazionale ha un’innata capacità integrativa che le permette costanti aggiogamenti, pur mantenendo una propria coerenza e pur conservando solidi legami con la tradizione. L’Analisi Transazionale fin dai primi anni della decade del ’60 si organizzò costituendo un’associazione internazionale, l’ITAA. Più tardi fu costituita l’EATA, l’associazione europea che oggi ha una sua organizzazione autonoma. I due enti garantiscono gli standard formativi per i diversi livelli professionali, sia in campo clinico che in quello delle organizzazioni e dell’educazione, pubblicano riviste, organizzano congressi. L’analista transazionale è tenuto al rispetto di un codice etico che apprende come parte integrante della sua formazione. Il training formativo si articola in diverse tappe che vanno dai primi apprendimenti introduttivi fino al riconoscimento del ruolo di didatta e di supervisore. Ogni formazione viene garantita da esami tenuti da commissioni internazionali e viene riconosciuta in tutti i paesi in cui l’Analisi Transazionale sia presente attraverso le sue associazioni nazionali.