Appunti sul narcisismo

vuoto e creatività

Appunti sul narcisismo

Pubblicato in: Patologie limite e narcisismo nella teoria e nella pratica transazionale – Ed. Marotta, Napoli, 1990.

 

“Di fronte alla sfrontatezza narcisistica, sprezzante e offensiva, il terapeuta non può cessare di guardare dietro la maschera per vincere il suo rifiuto e scoprire il bambino impaurito, desideroso di avere uno spazio nel mondo, un diritto ad esserci”.

 

 Ipotesi teorica di base

Approfondendo lo studio del Corpus teorico dell’AT e dei principi filosofici che lo ispirano, mi è sembrato che ci fosse una incongruenza tra la teoria degli Stati dell’Io e la teoria del Copione, quasi nascessero da diverse ispirazioni teoriche, o forse più semplicemente perché formulate in momenti diversi della maturazione del pensiero di E. Berne. La teoria degli Stati dell’Io, pur con le profonde innovazioni che ha introdotto, trova comunque le sue matrici nella concezione freudiana dell’Io, cioè in una visione strutturale della psiche, considerato che viene concepito quasi come una sede preposta a raccogliere contenuti e ad esercitare funzioni. La originaria formulazione di organo psichico, adottata da Berne, non fu mai del tutto abbandonata. La teoria del Copione invece si distacca dal modello strutturale e si propone, a mio parere, come più prossima alle concezioni che si focalizzano sulla capacità evolutiva di cui è dotato l’individuo che entra in relazione all’ambiente e quindi alle teorie che si occupano delle relazioni oggettuali e dei processi di adattamento.

Per la sua concezione filosofica di base l’AT possiede una profonda tendenza a considerare gli aspetti positivi dell’uomo, che, per natura è capace di evolversi e di andare verso la propria realizzazione. Il passo faticoso compiuto da alcune scuole psicoanalitiche per il superamento della teoria freudiana delle pulsioni o come «direbbe Kohut (1979) per andare oltre la concezione dell’uomo colpevole e attingere ad una visione positiva e ottimistica dell’esistenza privilegiando l’uomo tragico, è già patrimonio acquisito della psicologia umanistica e in questa ottica mi pare si ponga la teoria del Copione. Mi sembra che l’AT si sia storicamente mossa tra due fondamentali visioni della psiche e dell’uomo, la tradizione psicoanalitica classica e quella che proviene dalla psicologia umanistica e dalle teorie psicoanalitiche del Sé. Forse è mancato il ponte che stabilisse una continuità tra la teoria degli Stati dell’Io e quella del Copione.

L’ipotesi teorica, tutta da sviluppare, che voglio proporre come punto di partenza per successive elaborazioni, si ispira alla concezione del Sé elaborata da Paul Goodman come base della psicoterapia della Gestalt. Goodman (1971) definisce il sé come “il complesso sistema di contatti necessari per l’adattamento in un campo” dotato di una qualità di spontaneità che produce attraverso lo “scoprire e inventare” l’adattamento creativo. Il Sé non è un’istanza fissa, un essere ma piuttosto un “essere al mondo”.

L’Io è una funzione del Sé, così come lo sono l’Es e la Personalità ed è caratterizzato dall’essere deliberato e intenzionale, dotato di creatività. Nel contatto dell’organismo con l’ambiente, attraverso processi di identificazione e alienazione, forma strutture complesse che diventano stabili nel tempo.

L’ipotesi che propongo è di considerare le strutture come il risultato di quel movimento che compie l’organismo verso il suo completamento attraverso una costante successione di episodi di contatto. Questa concezione ha il vantaggio di stabilire un ponte tra i concetti di Copione e di Stati dell’Io e di dare un diverso significato allo stesso concetto di ‘struttura’. Per esempio, lo Stato dell’Io Bambino verrebbe considerato come una struttura creata dall’Io, intendendo quest’ultimo come funzione del Sé. Il Bambino si forma in un determinato periodo della storia evolutiva per effetto dell’incontro tra l’organismo e l’ambiente e assume una sua specifica struttura che diventa aspetto rigido della personalità entrando a far parte del carattere. Analogo discorso vale per il Genitore e l’Adulto. Il Sé, inteso come centro motore, nucleo promotore dell’esperienza, ben oltre il livello psichico, possiede l’energia capace di promuovere “l’adattamento creativo” e quindi il cambiamento.

Sopravvivere ed evolversi

Il Sé si attualizza e diventa soggetto in un ambiente, assumendo un Io, attraverso due spinte fondamentali: sopravvivere ed evolversi (Perls 1977), che corrispondono rispettivamente ad un principio di conservazione che tende alla protezione e ad un principio di espansione che tende alla realizzazione, all’evolversi in senso ampio.

Il narcisismo è territorio del principio di evoluzione le cui manifestazioni più esteriori sono nel bisogno di essere riconosciuto e apprezzato. Il bambino fin da piccolo ha un bisogno profondo di essere considerato. È importante esistere, sì, ma con valore. Questo bisogno è così forte che a volte si rinuncia alla stessa sopravvivenza con l’idea di soddisfarlo, come nel caso del suicida che morendo finalmente otterrà attenzione, farà parlare di sé.

La capacità di adattamento, che determina la formazione dell’Io e dei suoi confini, è una qualità del principio di sopravvivenza ma anche, in maniera più sottile, appartiene al principio di evoluzione. Da quest’ultimo dipende, a mio parere, l’inserimento nel mondo sociale.

Gurdjieff parlava di istinto sociale, di conservazione e sessuale che parimenti governano l’esistenza umana. Non vi è quindi una graduatoria di importanza tra il sopravvivere e l’essere riconosciuto, la capacità di adattamento difende sia la sopravvivenza che l’evoluzione, qui intesa come affermazione e realizzazione di sé. C’è una forte intenzione autoaffermativa e desiderio di riconoscimento nel bambino che si adatta.

È importante sostenere gli aspetti sani del narcisismo. Gli impulsi esibizionistici del bambino, il suo modo spavaldo di affrontare il mondo, senza considerazione di limiti, producono sviluppo e crescita e, se ben integrati, una visione fiduciosa e stimolante della vita. Purtroppo ciò che nel Bambino Naturale è innocente spontaneità, curiosità ed entusiasmo creativo, diventa nell’incontro con l’ambiente rigida fissazione e presto il bambino perde la freschezza istintiva e trasforma le sue doti in arroganza aggressiva. Arriva un’età in cui anche il bambino più amato perde l’attenzione benevola e l’amore incondizionato. Reclama i suoi bisogni, scopre la sessualità, diventa più calcolatore nella manipolazione, il papà e la mamma cominciano a viverlo come insopportabile e l’educazione diventa sempre più repressiva.

 

Il padre e la madre

Se consideriamo la sopravvivenza e l’evoluzione come i principi che guidano l’esistenza e lo sviluppo umano, il mondo oggettuale è il territorio nel quale l’uomo può esistere e il padre e la madre sono i contenitori che simbolicamente rappresentano l’una il principio di sopravvivenza, l’altro il principio di evoluzione. Il bambino ha bisogno di integrare il padre, simbolo di affermazione e assertività, che gli insegni i valori e lo guidi verso l’affermazione di sé. Diventa disperato quando gli manca il modello a cui ispirarsi. Si sente piccolo e impotente, precipita in un vuoto senza speranza. Inventa gli eroi. La storia dell’umanità è piena di eroi. Il padre rappresenta la polarità della madre che offre invece il dolce rilassamento degli abbracci fusionali, che insegna lo stare, il lasciarsi perdere nella contemplazione. Analogamente precipita nel vuoto quando la fusione si interrompe. Il piccolo che si separa sperimenta la perdita della sua stessa esistenza, che è un tutt’uno con quella della madre.

Riempire questo vuoto, acquistare il senso dell’esistere dentro e al di là del vuoto, senza sostegni provenienti dall’esterno, sarà il punto centrale da affrontare in terapia, per i narcisisti come per qualsiasi altra patologia.

 

Il bisogno di condividere

Si dà in generale molta attenzione in Psicoanalisi alla fase evolutiva nella quale si verificò l’evento traumatico o la difficoltà nella relazione oggettuale che determinò la patologia. Anche nella letteratura di A.T. c’è un consenso diffuso ad acquisire i risultati delle ricerche effettuate soprattutto da M. Malher sulla fase evolutiva alla quale far risalire il problema narcisistico. Thomson (1983), riportandosi alla Malher, fa risalire l’origine del disturbo ad un inadeguato superamento del processo di separazione-individuazione ed in particolare a carenze relative alla III sottofase, quella del riavvicinamento, periodo in cui il bambino sente il bisogno di condividere le proprie esperienze e di trovare protezione per le paure che incomincia a provare durante l’esplorazione dell’ambiente.

Il bambino perde onnipotenza, diventa più ponderato, comincia a integrare e a riconoscere le situazioni di pericolo. Se non trova la necessaria protezione e viene abbandonato a sé stesso si difenderà ricorrendo alle modalità caratteristiche della sottofase precedente di sviluppo, quella della sperimentazione, tipicamente narcisistica. Mi sembra che i significati di queste dinamiche siano coerenti e che rispondano perfettamente alla genesi del disturbo narcisistico, purché venga inteso come un processo complesso nel quale il momento evolutivo specifico diventa simbolico di una realtà relazionale che inizia alla nascita e prosegue perlomeno fino alla adolescenza.

 

Il ruolo del padre

Nel costruire il romanzo di una vita intervengono molteplici attori e ritengo che, specificamente per il carattere narcisistico, assuma un ruolo primario la figura del padre, così come precedentemente ho voluto intenderla e cioè come simbolica di un principio di evoluzione che porta all’autoaffermazione e di una e di una forza attiva che provoca cambiamento.

Mi sembra che nella sottofase di riavvicinamento, e in tutti i momenti in cui il bambino sente questo bisogno, sia importante il sostegno del padre e la presenza del suo modello rassicurante. Per chi soffre di disturbi narcisistici il naturale desiderio di autonomia e la tensione ad andare diventano compulsivi e assumono la forma di una vera e propria “angoscia di perdita dell’autonomia” (Dreitzel, 1989). Ciò avviene quando l’esperienza con l’altro è stata poco vitalizzante e ha favorito la repressione della creativa tensione a fare. Dipende molto dal padre fornire un adeguato modello sul come fare. Non è sufficiente il solo messaggio sociale “fai” se non è congruente con il messaggio psicologico e se è privo di un contenuto protettivo sul “come fare”, basato su dati realistici piuttosto che su insegnamenti formali. Il messaggio resta una controingiunzione, inefficace o addirittura deleterio, se non contiene un permesso a livello più profondo.

Voglio ricordare a questo punto come racconta Kohut (1979), in maniera semplice e bella, quello che egli considera la vittoria del Sé, del suo nucleo più profondo, con la metafora del semicerchio che Ulisse tracciò con l’aratro, quando gli misero il figlioletto davanti per provare che non era pazzo, come voleva far credere quando cercò di evitare la partenza per la guerra contro Troia. Ulisse facendo un semicerchio deviò la direzione dell’aratro e salvò la vita del piccolo Telemaco. Così fu smascherata la sua falsa pazzia e dovette partire per il viaggio che tanto a lungo lo tenne lontano. Ma al ritorno il figlio fu suo alleato e combatterono i Proci fianco a fianco. Non ci fu conflitto intergenerazionale. “Normale e umano è il sostegno alla generazione successiva… le gesta di Re Edipo costituiscono uno strato più superficiale del Sé, strato che ricopre il nucleo”. Il parricidio di Edipo non è forse effetto del “fatto che egli stesso fosse un figlio rifiutato? Edipo non era voluto dai genitori e fu buttato fuori al freddo” (Kohut, 1979).

Telemaco conobbe presto l’amore e la protezione. Ma quanto è difficile la via di Ulisse.

L’idealizzazione e la creatività

Tornando al discorso di fondo, quando la realtà ambientale non risponde alle esigenze del bambino in maniera soddisfacente, questi trova rifugio nel suo Piccolo Professore che detiene la facoltà idealizzante ricca di capacità compensatoria. Quando l’idealizzazione resta nei limiti della creatività spontanea favorisce la crescita e le offre prospettive. È diverso quando viene utilizzata per coprire l’angoscia di solitudine e il vuoto di fronte ai quali si trova un bambino bruscamente separato o lasciato vivere in un mondo poco accogliente, freddo nei  contatti, senza sufficienti stimoli e riferimenti sicuri. Allora l’idealizzazione fornisce sostegno vitale e soddisfa compensatoriamente il bisogno di esserci, di far parte, di essere apprezzato, di sapere cosa fare. Allorché l’idealizzazione perde il contatto con il bisogno originario, perde la sua fresca creatività e diventa rigido tratto caratteriale nell’adulto che sta inseguendo ancora lo stesso bisogno, ripetendo modalità che ormai non possono più pagare. Di fronte alla sfrontatezza narcisistica, sprezzante e offensiva, il terapeuta non può cessare di guardare dietro la maschera per vincere il suo rifiuto e scoprire il bambino impaurito, desideroso di avere uno spazio nel mondo, un diritto ad esserci. È pieno di curiosità, disposto a rischiare eroicamente ed ha una gran paura di non farcela perché si sente piccolo e impotente. Nasconde un bisogno di rispecchiamento dietro la sua chiusura e se lo aspetta dal terapeuta quando ne chiede l’apprezzamento mettendosi al centro per sentirsi dire “bravo”. Ancora non ha completato il processo di separazione dalla madre dal cui occhio rilucente (Kohut, 1976) si aspetta la conferma di esserci. In mancanza di questo rischia di cadere in un traumatico non esistere poiché ancora come oggetto-Sé, bambino indifferenziato, vive la separazione dall’intero di cui si sente parte come un precipitare nel nulla, nel vuoto assoluto. Ha bisogno di idealizzare il terapeuta sulla cui immagine riversa i desideri riposti nel padre. L’immagine “forte” che gli insegni ad affermarsi nella vita. Il padre protettivo al quale fare riferimento, chiaro e congruente, assertivo ed autoaffermativo, quello che permette di provare un sentimento del tipo “sono fiero di lui”.

Kohut (1976) ritiene che al padre, come seconda istanza, può riferirsi il bambino per riparare ai fallimenti della madre. Penso sia una ipotesi puramente teorica. Nella dinamica di coppia la carenza della madre è sostenuta in maniera complementare dalla carenza del padre, il quale a sua volta è sostenuto in quello specifico aspetto dalla carenza complementare della compagna. La coppia parentale costituisce un sistema funzionale nella produzione della patologia e il bambino stesso porta il suo contributo, inserendosi come parte attiva nel gioco relazionale. Da una parte c’è l’incorporazione dei due genitori e dall’altra parte interviene l’elaborazione interna effettuata dall’A1, promotore dell’adattamento creativo e quindi elemento centrale nella formazione dei tratti narcisistici, siano essi patologici o autorealizzanti.

Ritengo che la terapia vada molto centrata sull’attività del Piccolo Professore che detiene il predominio delle istanze creative dell’Io e come tale può solo essere relegato sullo sfondo ma non irrigidirsi in una struttura. Appartiene al Sé e appartiene all’Io, conserva la sua libertà creativa e conosce tutti gli intrighi con i quali ha salvato e ancora può salvare.

Quanto più sono conflittuali le figure genitoriali, tanto maggiore è il conflitto e la scissione nel paziente. Con il lavoro terapeutico è facile evidenziare come i genitori introiettati continuano a litigare all’interno del paziente il quale ripete in sé la lotta che vide contrapposti il padre e la madre. Non poté scegliere allora, non può scegliere oggi. Scegliere tra l’uno e l’altra non è possibile, è una trappola pari al non scegliere. Il processo di idealizzazione è comune a tutte le patologie, è la forza necessaria per affacciarsi al mondo e per dare senso alla vita ed è comprensibile solo in termini di empatia. È il regno del Piccolo Professore, è parte della natura e della condizione umana. Cosa avviene in un piccolo sistema cognitivo che va costruendosi e quali sono le reazioni interne e quali circuiti vengono attivati da specifiche esperienze, fa parte dell’inesplorato. Possiamo avvicinarci per intuito in quanto condividiamo la stessa natura di base e possiamo noi stessi, come terapeuti o semplicemente come uomini in relazione, sviluppare quella facoltà che per eccesso di realtà abbiamo coperto e nascosto oppure per paura di vivere abbiamo esaltato senza contatto con il mondo reale. È la facoltà creativa, l’Io creativo di Rank, spesso osteggiato dalla psicoanalisi ortodossa, che permette all’essere umano di inventare la propria esistenza, di renderla ricca di esperienze e gli offre la possibilità di superare il limite della vita attuale, permettendogli di immaginare e vivere altri stati, altri livelli di coscienza, fino a concepire la sua immortalità, fino all’idea di Dio, sia esso definito come entità esterna, come nel cristianesimo, o come stato individuale da raggiungere, come nel buddhismo (Naranjo, com. pers.).

Il dramma di chi struttura una difesa narcisistica in direzione patologica viene dal fatto che per gli incidenti evolutivi occorsigli ha mantenuto particolarmente vivo il suo aspetto creativo non integrandolo con gli altri aspetti della personalità che non si sono parimenti sviluppati. La funzione creativa non è stata adeguatamente inserita nel controllo dell’A2, inteso come funzione dell’Io capace di senso di realtà e di operare scelte conseguenti, adeguate alla situazione attuale e rivolte verso una concreta soddisfazione del bisogno attraverso un contatto sano con l’ambiente. L’ambiente a sua volta, incorporato come rappresentazione interna nel G2, non ha offerto indicazioni chiare né protezione sufficiente, rivelandosi carente sul versante affettivo e soprattutto incongruente su quello normativo. La scelta idealizzante è fatta in base ad una mancanza e allora la creatività diventa un obbligo, una compulsione e, poiché stereotipata, cessa di essere creatività e diventa una trappola dalla quale non si può uscire perché fuori c’è il vuoto, una dimensione di non ritorno.

 

Cosa manca

Quando mi pongo la domanda: “Cosa manca a questa persona” spesso scopro che il bisogno è noto, il narcisista sa cosa vuole, ha superato quella fase di simbiosi in cui la confluenza con gli altri non gli permette di identificare i propri bisogni perché ancora non esiste come individuo, però non ha imparato come soddisfarli e anziché andare verso l’oggetto per il contatto, assume una tendenza retroflessiva e rivolge l’energia verso di sé. Non può instaurare una relazione Io – Tu e sembra che insegua un costante Io – Io. Soffre per la mancanza di riferimento e di sostegno, di una guida che gli insegni a muoversi nel mondo. È vittima del fallimento del padre, gli mancano il suo amore la sua forza, la sua sicurezza. Oggi come mai la crisi del padre, della regola ferma, della religione che dà struttura e appoggio, dei valori tradizionali della società borghese, privano il bambino, futuro adulto, della protezione alla quale l’uomo ha sempre aspirato fin da quando si è organizzato in gruppo, si è dato leggi, ha cercato dei e profeti. Se non può appoggiarsi ad un referente stabile e concreto, si appoggia ad una fantasia, idealizza la sua esistenza, si crea un’immagine, un ruolo e fantastica che affermazione, riconoscimento e successo copriranno il suo vuoto.

La dinamica interna

Il bambino che parte per le sue esplorazioni e tornando alla madre non trova la protezione che gli serve per vincere le sue paure, si immagina onnipotente, decide che non avrà bisogno di nessuno e che farà cose tali da far parlare di sé. Profondamente però sta maturando la convinzione di non essere amato, di essere rifiutato e incapace di farsi riconoscere. Paradossalmente il tornaconto dei suoi giochi conduce sempre al rifiuto da parte degli altri. Compulsivamente determinerà situazioni tali da essere respinto e rifiutato. Persegue la conferma della posizione esistenziale di fondo, una profonda svalutazione di sé.  D’altra parte il tornaconto mostra qual è il vero desiderio, la polarità opposta che non gli è stato permesso di vivere: un gran bisogno di esserci, di essere riconosciuto.

 

Diagramma di massima:

Madre: fredda, assente, che non accoglie (manca il rispecchiamento).

Padre: non dà indicazioni congruenti, offre un modello forte ma non spiega come fare, assente, “piedi di argilla”.

B1: bisogno di essere accolto, protetto, riconosciuto.

A1: si convince che così come è non piace, (o altre svalutazioni di sé). Decide: sarò onnipotente, grandioso, parleranno di me.

G1+: serbatoio dell’immagine ideale positiva da perseguire.

G1-: ideale negativo, immagine mostruosa che blocca e paralizza, funzionale per mantenere il blocco che difende dalla paura.

La paura di fondo è di perdere l’autonomia (Dreitzel, 1989) che, conquistata attraverso il senso di onnipotenza, è soltanto apparente e protegge dall’angoscia di cadere nel vuoto nel quale si troverebbe se accettasse relazioni troppo coinvolgenti, con un rischio di fusione che non potrebbe tollerare perché ritenuta ingannevole e preludio di una perdita distruttiva.

Il fallimento del padre

F. vive un costante conflitto che lo porta da una spasmodica ricerca dell’accettazione degli altri ad un costante rifiuto degli stessi. La sua esperienza è del tipo: “se esiste il conflitto io esisto”. Cosa accadrebbe se uscisse dall’impasse? “Ci sarebbe la pace, la tranquillità”. Ma la sua pace, la sua tranquillità, sono vissute come un non esistere. Sono il vuoto senza ritorno. Pace e tranquillità sono sinonimo di morte dell’anima, di silenzio delle emozioni. Nel vuoto della sua solitudine fredda si sentiva da bambino come immerso nella bambagia, instupidito, sordo a qualsiasi sollecitazione esterna. L’unica possibilità, di salvarsi fu di sognare ad occhi aperti “le grandi magie” e quando non poté farlo allucinò mostri e streghe cattive che paralizzarono e paralizzano ancora la sua esistenza. Idealizzò il padre che divenne riflesso della sua stessa grandezza o, per dirla con Kohut (1976), un prolungamento del suo sé grandioso.

Più tardi idealizza il terapeuta e, quando ne scopre i limiti lo rifiuta. Vive una profonda ambivalenza. Lo disprezza perché non può riflettere in lui la propria immagine perfetta e contemporaneamente lo vuole limitato per non sentirsi umiliato nella sua piccolezza. Teme e desidera di ritrovare il padre pieno di successi nella vita sociale e così preso dal suo desiderio di affermazione, che non può dare sostegni concreti e riferimenti chiari al suo bambino. Colse di lui quanto “brillava”. L’immagine di successo l’ingannò, distorse la sua visione del mondo, negò la sua fragilità, pensò di arrivare alla meta senza passare le tappe, non imparò dagli sforzi e dalle frustrazioni del crescere. Alimentò il sogno che si facesse e basta, che l’impresa realizzata gli regalasse l’amore e il riconoscimento. Scoprì tardi la fragilità del suo mito. Il padre copriva il vuoto interiore e il fallimento affettivo con il successo professionale. Il modello del padre mostrò “i piedi di argilla” (Racamier, 1983) e quando lo scopri la sua rabbia fu senza confini. Era stato tradito due volte: la prima volta dalla madre, così impaurita anche lei che non poteva accoglierlo quando la cercava per trovare conforto alle sue incertezze e al suo terrore, e una seconda volta dal padre. Dietro l’immagine vincente alla quale si era affidato, scoprì debolezza e fragilità: il sostegno che gli offriva era falso, votato alle apparenze. Di nuovo vacillò e sentì vuoto sotto di sé.

La storia di L. fu diversa. Scopri presto la fragilità e l’inconsistenza dei messaggi paterni. Non ebbe modo di idealizzarlo. Non potendo usarlo come schermo per la propria grandiosità, coprì il suo grande senso di vuoto con un modello compensatorio. La figura insignificante del padre viene introiettata ma non accettata, d’altra parte L. non ha un altro modello e quindi relega sullo sfondo il Genitore incorporato e rifiutato che non per questo diventa meno attivo. Il Piccolo Professore elabora un G1+ suo sostituto, eroico, forte e senza macchia. L’incorporazione del padre che vive sullo sfondo alimenta dubbi e paure e organizza impasses di II grado (Goulding, 1977). Si procura fallimenti continui dei quali non si assume la responsabilità. “Come è possibile” sembra chiedersi “che con una visione così bella del mondo e della vita, tutto mi va male?”. Proietta sugli altri la responsabilità. Sono “loro” che non gli permettono di realizzare i suoi ideali di un mondo governato da coraggio e lealtà. Sono loro, “gretti e meschini”, che gli permettono di non scoprire quanto di suo padre ci sia in lui. È difficile fargli accettare il limite, il limite dell’essere umano. Quando approfondì di più la relazione con il padre, e purtroppo ciò si verificò dopo la sua morte che avvenne durante la terapia, incominciò a scoprirne i lati positivi. Versò le lacrime mai piante. Si meravigliò di quanto desiderio nascondesse dietro il suo disprezzo e quanto gli somigliasse. Scoprì quanta forza e coraggio aveva avuto quell’uomo “imbelle” nell’organizzarsi la vita. Il suo narcisismo si colorò di note umane, imparò la comprensione, primo passo verso l’amore.

L’esempio che simbolizza la sua organizzazione interna è dato dal seguente episodio: redarguisce un giovanotto scorretto che gli passa avanti in una fila e questi reagisce con espressioni offensive. L. evita qualsiasi reazione, però sente un malessere che lo rode dentro, non si perdona la paura. Non si è comportato da Adulto, dice. Un Adulto, a suo parere, avrebbe risposto, avrebbe cercato un “dialogo” e infine o sarebbe finita a botte o avrebbero preso il caffè insieme. Di fatto ha scelto un comportamento sano di evitamento della rissa ma la pesante contaminazione provocata dal G1 positivo non gli permette di riconoscerlo come tale, e quindi non si perdona. Il comportamento adottato non corrisponde al suo ideale di forza e coraggio che ha contrapposto al padre disprezzato, vissuto come fiacco, vigliacco e pauroso. Paradossalmente è proprio questo padre incorporato e disconosciuto che determina il suo comportamento tutto sommato adeguato, anche se inconsapevole.

diagramma:

 G (padre): figura insignificante.

A1: rielabora il padre incorporato e lo sostituisce con un G1 eroico-forte-senza macchia.

G1+: in primo piano (ideale).

G (padre): resta attivo sullo sfondo.

  

Il Sé ideale

La trappola della difesa narcisistica è nella costruzione di un sé ideale che è effetto della orgogliosa non accettazione del limite umano (Horney, 1981). La vitale tensione verso l’autoaffermazione e il desiderio di riconoscimento diventano rifiuto della realtà e ricerca disperata dell’escamotage che permetta di superare il limite. Quando la frustrazione non è accompagnata da partecipazione empatica è difficile che il bambino accetti e digerisca i limiti che la vita gli impone. Può superare le sue paure se riceve amore. In terapia diventerà quello che Kohut (1976) chiama “la frustrazione ottimale” e F. Perls (1977) “frustrazione accompagnata da simpatia”. Di fronte ai fallimenti seguiti da una mancanza di comprensione, il bambino impara a rifiutare il proprio limite perché gli provoca una sofferenza intollerabile. Incomincia a mascherare a se stesso chi è, il suo vero sé, alienandosi sempre di più dall’esistenza reale per rifugiarsi nel dover essere. È facile intendere come questo meccanismo appartenga a tutti gli uomini e non solo a chi si struttura in maniera più definita in una patologia narcisistica.

 

La falsa autonomia

Le bambine che strutturano difese narcisistiche spesso riportano nella loro storia quello che vissero come un tradimento del padre: un improvviso rifiuto di contatto intimo che arriva dopo un’abitudine a ricevere molta attenzione e caldo coinvolgimento. Una paziente racconta: “ero sempre con lui… e poi improvvisamente si dimenticò di me… se tu che sei la mia vita mi hai tradito, cosa faranno gli altri? Mamma si sente soffocata dalla mia presenza, non mi capisce. Se anche papà mi ignora io sento che non esisto. Ora non sta più con me… non mi dice cosa fare… soltanto mi dice che crescerò e capirò… un giorno sarai diversa”. Le manca un sostegno, un riferimento che le indichi cosa fare. Si difende dalla delusione del rifiuto negando il suo amore. “Il mio amore è così prezioso… immenso… non ho trovato chi lo merita”. È offesa, delusa e, poiché nessuno le insegna una via da seguire, si inventa una falsa autonomia. Voleva che le dicessero cosa fare e non ebbe risposte: “Nessuno progettava niente per me… che noia…tutti uscivano, io non avevo niente da fare, senza giocattoli…che noia…allora sogno… sogno gli altri, di stare con gli altri”. Si riempie di superbia, diventa tracotante: “Ho bisogno di progetti pazzi per sentirmi capace, altrimenti mi sento morire”. Senza progetti folli si annoia e allora diventa delirante per compensare la sua mancanza d’essere. Progetta la sua morte in un atto eroico e si sottopone ad ogni sorta di esperienze distruttive. Anche per il terapeuta è difficile resistere alla sua sfida. La comprensione nasce se guarda alla bambina terrorizzata che precipita nel vuoto e nel senso di nullità.

 

Il terapeuta come modello

Racamier (1983) definisce genitori “squalificatori” quelli “che negano accanitamente la loro fragilità; sono forti a spese del bambino”. Ma intimamente il paziente, l’ex bambino, sa che questo genitore onnipotente aveva i “piedi d’argilla”. A volte la fragilità non confessa della figura paterna incorporata diventa un duro banco di prova per l’alleanza terapeutica con una donna. In superficie ha idealizzato il padre ma profondamente sa di essere stata ingannata affidandosi a lui. L’esempio di C. è sintomatico di questo rapporto con la figura maschile ma anche dell’intreccio delle relazioni nella coppia parentale, giocato sulla sua pelle. Il padre la riempie di coccole, ancora oggi la tratta come la sua bambinetta. Viene da una lunga terapia con scarsi effetti.  Subito gioca, provoca, accusa, definisce il nuovo terapeuta rigido, piange, lo accusa di non capirla. Più volte minaccia di andarsene. Il terapeuta la blocca, non accetta il suo gioco. Le dice chiaramente che non le permetterà di fare la bambina con lui: “Non sarò complice del tuo fallimento, bambolina”. A lei che vuole andare ordina di sedere: “Non uscirai da questa stanza prima che finisca l’ora”. È una lotta per il potere. Lei conosce ogni sorta di manipolazione e però il modello che si trova di fronte è completamente nuovo, è frastornata. Il padre non fa così, il primo terapeuta le permetteva molto di più senza reagire. “Tu sei senza comprensione, sei duro, non ti importa niente di me”. Era molto importante non perderla; già il padre, il marito, l’ex terapeuta avevano mostrato i “piedi di argilla”. Un momento fondamentale per l’alleanza venne a seguito di un suo rifiuto a pagare una seduta saltata. Non riteneva giusto dare quei soldi, non sarebbe più venuta. Il terapeuta la affrontò con estrema chiarezza: le disse che non poteva permettersi di giocarsi la terapia. “Stai troppo male, ti manca tutto, carezze, sesso, non hai attenzione da nessuno, vivi da disperata. Tu continui a venire qui perché, pur rifiutandomi è l’unico posto dove trovi un po’ di vita; sei circondata da zombi”.

È vero sta proprio male, ha bisogno di riferimenti, di strutture solide sulle quali appoggiarsi. La madre, svampita e assente, incapace di sostenere il peso della casa e dei figli, appena può, abbandona tutto e tutti e ricorre alla famiglia di origine dalla quale non si è mai staccata. Il padre iperprotettivo la tiene prigioniera con la sua affettività invasiva e la usa come strumento di ricatto contro la moglie. La difende ad oltranza e le permette ogni capriccio che invece la moglie impaziente rifiuta con intolleranza. Diventa gelosa della figlia e sempre più rifiutante della casa in cui vive. C. porta in sé il conflitto della coppia e il vuoto del loro rapporto senza stima. È usata come terreno di lotta dai suoi genitori e lei, apparentemente, sceglie il migliore, quello più buono che la coccola e la protegge. Di fatto perde ogni autonomia, non ha il permesso ad andare. Così va e torna e non sa dove fermarsi. Il suo ideale è del tutto inconsistente, un vago impegno a far bene, non sa con precisione cosa, e, poiché non sa fare rimanda e si prepara continuamente. Non è mai abbastanza pronta, deve far meglio. Vive un vuoto profondo che sembra incolmabile. All’incapacità materna si è aggiunta una falsa protettività del padre che è stata ancora più ingannevole in quanto propostosi come padre buono. Anche lui, però, è un infelice; impaurito dalla vita implora con il suo sguardo di non essere lasciato. Ricco e rispettato nel mondo, dipende dall’attenzione della figlia e lei non lo lascia perché teme che, se va via, lui si lasci morire. “È una trappola terribile” – urla, piangendo – “è una forza invincibile che mi tiene legata a lui”. Mostri, incubi, ombre violente popolano i suoi sogni e lei si paralizza, impotente, nel buio, con gli occhi sbarrati. Il vuoto è totale, non trova appoggio. La mancanza di struttura e di un solido riferimento hanno favorito il costruirsi di un G1 negativo incombente e non ha permesso il formarsi di un solido G2 sul quale sostenersi. La funzione genitoriale del terapeuta diventa importante: offre un modello di congruenza al quale ispirarsi. Arriva un momento in cui C. lo idealizza. Il terapeuta lo permette. C’è un momento in cui il paziente idealizza il suo terapeuta e non c’è altro da fare, dice Kohut (1976) che accettarlo. Può affidarsi, sa che questa volta non sarà tradita, ma a tratti compare il dubbio: “Perché sei dolce con me? Non sarai come mio padre? Vorrai usarmi anche tu?”.

Le forti scissioni, l’incapacità di trovare uno spazio nel mondo, l’uso dell’alcool nel passato, la maledizione a non mettere radici, fanno pensare di lei che ha tratti di tipo border-line. Esce forzatamente dalla simbiosi con la madre e ne istaura una nuova col padre, vissuto come madre egli stesso (Kohut, 1976), le mancherà una vera separazione e una figura maschile di riferimento. Quello che non si permette di vivere è “l’angoscia dell’autonomia” (Dreitzel, 1989).

 

Il paradiso simbiotico

L’idealizzazione assume caratteristiche diverse per i pazienti che vanno più sul versante border-line. Per loro il “sogno” è tornare al paradiso simbiotico mai completamente vissuto. Spesso il mondo sognato è governato dall’amore, hanno un ideale di condivisione delle cose, un “vogliamoci bene” generalizzato che contrasta ogni giorno con una realtà vissuta come minacciante e aggressiva. Nel caso di P. il sogno è tornare all’unione con i fratelli, i bambini che giocavano allegri sulla terrazza ampia, il rosso caldo come l’amore di una casa accogliente, il mondo sereno dal quale scrutava vasti orizzonti sul mare, dal quale fu strappata bruscamente per essere portata nel freddo collegio, pieno di stretti corridoi senza luce. Oggi vive confusa, piena di progetti irrealizzati, instabile come la madre che “mette da parte” i figli appena nati, affidandoli alla cura degli altri, proiettata al successo come il padre, del quale copia le mete che però non sa attuare. Lo vive con piena ambivalenza: “ha il potere, basterebbe un suo gesto per risolvere” e subito dopo: “Pensa a ingrandire il suo regno… ma è solo… ha paura, se molla il lavoro, impazzisce”. Sogna un uomo forte, pieno d’amore, è il padre che le è mancato e lo proietta e nei suoi sogni sul terapeuta, “un uomo duro e buono, pieno d’amore che l’aiuta a superare un baratro vuoto e nero”. Passando su una piattaforma difficile e in salita può raggiungere l’altra sponda e sorridere dicendo: “Ce l’ho fatta, sto camminando”. È un momento importante per la terapia, concepisce una possibilità di uscita dal copione anche se è ancora proiettata sul terapeuta, ma è già importante che possa immaginarlo.

 

Considerazioni per la terapia

Dagli esempi riportati e da altri, ho tratto l’idea di quanto sia importante nel processo di autonomia il ruolo del padre e di quanto questi rappresenti la porta di uscita nel mondo. La delusione che viene da lui può arrestare lo sviluppo come le carenze che vengono dalla madre. I limiti di entrambi possono facilitare il costituirsi di un vuoto esistenziale vissuto drammaticamente. Mi sembra molto importante che il terapeuta tenga presente che mancò congruenza e coraggio e che pertanto mandi messaggi chiari e coerenti, non come il papà “fanfarone” che dice “Io non sbaglio” pensando così di mantenere l’autorità, ma come uomo consapevole che può sbagliare e non per questo si lascia irretire, commuovere o impressionare dal ricatto. È un lavoro che spesso richiede molta energia e impegno emotivo. Con i pazienti che giocano a “Non ce la farai ad aiutarmi” si può accettare la sfida. Non dare spazio ai lamenti. Bloccare i ricatti. Rifiutare le colpevolizzazioni. Il messaggio complessivo è: “Fai quello che ti pare, io non cambierò per te e non ti permetterò di disturbarmi; non sono qui per rispondere alle tue aspettative. Io resto io nonostante i tuoi desideri”. Sostenere la propria posizione con coerenza nonostante gli attacchi e accettare la sfida e la lotta per il potere può favorire la costruzione dell’autostima nel paziente, anche se inizia con una proiezione sul terapeuta. Il messaggio che recepisce è: “Se lui ha coraggio ed è coerente, anch’io posso uscire dalla mia vigliaccheria e affrontare la realtà”.

Il terapeuta si scontrerà con la colpevolizzazione e non può permettersi di aspirare ad essere perfetto se vuole resistere agli attacchi. “Non sono perfetto” è il messaggio che invierà “e nonostante questo mi rispetto”.

D’altra parte il paziente con disturbi narcisistici ha vissuto un Genitore Affettivo carente, spesso presente solo sul versante iperprotettivo e falsamente caldo e accogliente. Ha cosi imparato a non amare ed è centrato su di sé. Amare è rischioso, prevede la perdita e l’abbandono, meglio non coinvolgersi con gli altri. “Li utilizzo per quanto mi servono ma non di più”. L’impiego del GA da parte del terapeuta è quanto mai importante e altrettanto difficile. Spesso il suo vissuto sarà di sentirsi sfruttato ed è difficile accettare che il paziente ti sta solo utilizzando. Questo grave colpo al narcisismo del terapeuta può essere un momento importante per la sua crescita. Può imparare la compassione che va un passo più in là dell’amore perché non richiede scambio. È un dare senza richiedere, un sentimento molto profondo di solidarietà per la comune sofferenza umana. Su questa via mi sembra interessante esplorare un aspetto del controtransfert che di solito viene svalutato. Racamier (1983) ricorda che c’è un odio profondo nel narcisista che si sottopone a terapia e c’è un odio anche nel terapeuta verso il paziente del quale si è poco inclini a parlare. Ritengo che il paziente lo percepisca e che convenga esprimere il proprio rifiuto quando emerge.

F. Farelly (com. pers.) pensa che il terapeuta abbia pari diritti del paziente e se questo fa il pazzo si aspetti che anche il terapeuta si comporti da pazzo. Spesso esasperare l’aspetto patologico è un potente mezzo per ricostruire il senso di realtà: il “fallo di più” della Gestalt. Dare soluzioni pazze e assurde, se fatto con profonda empatia, così come suggerisce Farelly, aiuta ad attivare l’Adulto. Se al paziente dici: “Mi piaci, tu vali” ti risponderà che lo dici perché questo è il tuo mestiere. Se invece lo provochi e gli dici che non vale nulla, allora reagirà, dirà che non è vero e vorrà dimostrarti che ha qualcosa di buono. Imparerà ad essere assertivo e affermativo. Il BA negativo lascia il posto al B ribelle e dalla contrapposizione nascerà l’equilibrio dell’A che prenderà posizione.

L’assunto è valido anche nell’ipotesi che il paziente si stia ipervalutando ed entri in un delirio di grandiosità. Proponendogli soluzioni ancora più deliranti dopo un po’ riderà di sé, così come quando viene smascherato un gioco. Il bilanciamento che nasce in maniera naturale, per contrapposizione tra l’esperienza del paziente e la proposta esagerata del terapeuta, è un modo per attivare rapidamente la funzione dell’Adulto. Un lavoro di questo tipo necessita di molta empatia soprattutto quando si tratta con personalità che filtrano i messaggi del terapeuta come critiche provenienti dal Genitore. Però non ritengo che ci siano regole fisse sulla tecnica o la modalità relazionale che funziona. Ogni terapeuta possiede opzioni creative che corrispondono al suo temperamento e al suo tratto caratteriale. Sarà utile apprendere dai maestri ma soprattutto rendersi sempre più specialisti nel contatto diretto con le persone, per comprendere cosa passa nell’animo umano.

 

I temi esistenziali

In altra sede ho detto che una terapia che procede oltre i sintomi non potrà fare a meno “di occuparsi dei temi esistenziali” (Caleidoscopio, 1990) e di quella profonda paura che accomuna ogni essere umano, una paura che ha a che fare con il senso di perdersi nel non esistere. L’esperienza di vuoto, di andare nel nulla, è assai comune nei pazienti regressivi che vivono, come negli esempi su riportati, una profonda sofferenza nello sperimentare quella che sembra una vera mancanza d’essere. A volte è sperimentata come una sensazione di frantumarsi e il vissuto di perdita del corpo è simbolico di una perdita più profonda legata all’esistere. Paradossalmente il paziente regressivo contatta un’esperienza di disgregazione dell’Ego che è meta di antiche tradizioni spirituali. Naturalmente il panico relativo non è tollerabile in quanto manca la consapevolezza della natura più profonda dell’essere umano, che è fuori dalle strutture egoiche. L’Autorealizzazione “impone di uscire da confini e strutture e, all’estremo del continuo, comporta la distruzione dell’Ego, contemporaneamente meta desiderata e temuta, poiché al di là dell’Ego subentra il terrore del non essere” (Ferrara, l990). L’inganno è nel confondere il proprio essere con il proprio Io e se l’Io vacilla tutto l’essere sembra vacillare. Per questo ci irrigidiamo nelle difese anche se l’esperienza fuori dei confini determinati dall’Io può essere piena e arricchente. Man mano che ci si lascia andare nel vuoto “irresistibilmente il pensiero torna a rinascere” (Recaimer, 1983).

  1. Perls parlando del vuoto (1977) lo considera come un momento speciale per la crescita personale e l’evoluzione della terapia. “Il vuoto ha due valenze. Da una parte il vuoto senza essere che produce panico e terrore… d’altra parte il vuoto pieno: è un’esperienza di essere” che va “al di là di ogni definizione. Poterlo contattare… lo rende fertile” (Ferrara, 1990). Assume allora una grande importanza trattare il vuoto quando si presenta e permettere che il paziente lo contatti fino in fondo in un ambiente protetto. D’altra parte ho verificato di grande valore le esperienze ispirate al continuo di consapevolezza e alla meditazione in generale, che insegnano una capacità di autoappoggio e di contatto con il vuoto in maniera controllata, estremamente rassicurante per quanti si perdono negli spazi senza confini.

Questi aspetti della terapia vanno oltre la concezione della psicologia laica e attengono alla domanda che coinvolge da sempre l’uomo: “chi sono”. Penso che quest’area non debba restare estranea a chi si occupa del problema uomo.